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Pedagogie architettoniche. Visioni del mondo



Editoriale: 
Pedagogie architettoniche. Visioni del mondo


Colin Rowe sosteneva che lo scopo dell’educazione architettonica «non è solo quello di formare lo studente per l’occupazione professionale, ma è soprattutto quello di stimolare la sua crescita spirituale e intellettuale, permettendogli di cogliere la natura e il significato dell’architettura»(1). Proprio a partire da questo assunto, questo numero di FAmagazine propone di svolgere una selezione di alcune scuole di architettura e dei protagonisti che le hanno caratterizzate, a partire dalle peculiarità delle specifiche metodologie di insegnamento.
Ernesto Nathan Rogers asseriva che la scuola non deve obbligare al raggiungimento di mete già prefigurate ideologicamente ma deve insegnare un metodo, un punto di vista, di cui ognuno possa servirsi in misura del proprio talento. La scuola, come il luogo più consono per «pensare in concreto a un mondo migliore» un mondo costruito con “mezzi reali per fini reali” «perché non essendo pressata dal peso delle contingenze può applicarsi più spregiudicatamente a quei problemi che, senza presentarsi al momento come finiti, possono non essere affatto astratti e stravaganti»(2), intesa come «un attivo servizio del complesso sociale, un laboratorio dove si produce cultura»(3), attraverso la critica e l’immaginazione pilastri della ricerca architettonica.
I casi studio selezionati in questo numero sono tutte realtà nelle quali le intenzioni di Rogers vengono, se pur ognuna con peculiarità differenti, perseguite e rispettate e possono fornire un chiaro modello di scuola da esaminare non solo per i contenuti del loro insegnamento ma anche, e soprattutto, per il loro tentativo di costruire un progetto culturale. Proprio questo progetto, pur nascendo e concretizzandosi in modi diversi, trova le sue radici nella cultura umanistica, prima che tecnico-scientifica, allargando l’esperienza dell’architetto a dimensioni affini a quelle delle altre espressioni artistiche, mantenendo centrale il tema della forma, dello spazio e della composizione architettonica. Preme sottolineare che nessuna di queste esperienze ha mai avuto la presunzione di definire una sistematica teorica. Ciascuna di esse si è sviluppata secondo una teoresi fatta di formulazioni che in itinere si sono sempre modificate attraverso una prassi sperimentale, quel laboratorio dove si produce cultura di cui parlava Rogers.
Queste forme di insegnamento, diventano quindi dei tentativi di fare scuola, dove certamente in tutti i casi è presente l’autorevolezza del maestro che, se operante all’interno di una scuola, può rendere l’architettura insegnabile e trasmissibile, nella pienezza dei suoi nuclei problematici, oltre la formulazione di una precettistica altrimenti sterile.

Quello che avviene a Valparaíso in Cile, come scrive Massimo Alfieri, in una piccola scuola di architettura fondata sulla collaborazione tra un poeta argentino Godofredo Iommi e un architetto cileno Alberto Cruz, rappresenta una delle esperienze più originali rispetto alla didattica dell’architettura. In questa scuola il rapporto tra architettura e poesia diventa lo strumento di apertura verso il mondo. La poesia, per imparare a vedere il mondo con “occhi sud-americani” dove osservare diventa parte integrante del processo educativo e significa guardare le cose al di là del visibile, stabilendo in ciò che sembra evidente un senso nuovo. L’osservazione diventa quindi il seme di una piccola teoria, di una teoria sullo spazio fatta in una determinata circostanza e rende possibile la comprensione del mondo obbligandoci a costruire un punto di vista su di esso. Per questo motivo all’interno di questa scuola si utilizza la poesia nell’insegnamento, proprio perché i poeti sono coloro che ci possono insegnare ad osservare il mondo.
Oppure nell’esperienza di John Hejduk descritta da Luca Cardani dove «l’architettura è il risultato di un processo conoscitivo, uno dei modi attraverso cui il pensiero prende forma, si manifesta e acquista così una presenza, una trasmissibilità e un valore di testimonianza che produce cultura». John Hejduk, in particolare all’interno di quella scuola dove per quasi tutta la sua vita ha insegnato, la Cooper Union di New York, partirà dall’idea che chi studia non studia delle nozioni precostituite, ma ritrova se stesso nelle ragioni di un procedimento ottenuto attraverso l’esperienza. In questa scuola nasce un progetto che si basa sull’idea che non esiste l’architettura senza una conoscenza e che è necessario ricondurre l’operazione progettuale a dei presupposti teorici per poter intendere il valore dello spazio, dei corpi, degli oggetti. Hejduk da queste idee ripartirà insegnando l’architettura attraverso un discorso di carattere metaforico, per “osmosi”, come lui stesso sosterrà durante un’intervista. Hejduk non spiegherà mai i suoi progetti ma racconterà delle storie, delle favole, delle poesie a partire da oggetti che stanno dentro e fuori il mondo dell’architettura. Nei suoi esercizi avviene una narrazione dello spazio in grado di maturare una serie di consapevolezze e concetti che diventano parte dell’esercizio stesso e dell’esperienza dello studente che acquisisce la capacità di saper leggere l’architettura, imparando ad osservare il mondo attraverso gli occhi dell’architetto.
Altro caso studio presentato è l’esperienza di Luciano Semerani come coordinatore del Dottorato in Composizione Architettonica allo IUAV di Venezia. Semerani, abbandonando la pratica progettuale, svilupperà un’analisi della coerenza interna al processo di progettazione di una singola opera di un singolo autore al fine di verificarne un “valore assoluto”: l’autenticità del linguaggio. Quella stessa esigenza di autenticità, come lui stesso sostiene, che costituiva il filo rosso attraverso il quale il suo maestro, Ernesto N. Rogers, legava nella classe dei “Maestri” figure del tutto eterogenee come Perret e van de Velde, Le Corbusier, Mies van der Rohe, Wright, autori ed opere dal linguaggio quanto mai differente, ma esemplari per l’impegno a fondare teorie e poetica sull’esperienza di un fare rigorosamente garantito da un alto livello di fattura (la laica religio del fare con arte). Ma non basta dire che c’è una pretesa di indagare delle tecniche compositive. In realtà Semerani proverà a trovare «la genesi della forma penetrando nella ragion d’essere dell’atto creativo, indagando l’efficacia che un linguaggio ha per trasmettere una visione del mondo e della sua interpretazione».
Un altro esempio, descritto da Marta Caldeira, è quello dell’esperienza di Manuel Solà-Morales che, in qualità di docente, fondatore e direttore del Laboratori d’Urbanisme de Barcelona presso la ETSAB dal 1969 al 2012, ha curato la riforma chiave della pedagogia urbana di questa scuola determinato a superare la tendenza tecnocratica che aveva contraddistinto l’architettura e la pianificazione spagnola durante l’ultimo decennio del regime di Franco.
Solà-Morales con l’obiettivo di formare quello che lui definì l'architetto-urbanista’, «attraverso un programma propedeutico che accorpava architettura e urbanistica in un’unica disciplina», condusse una serie di ricerche partendo dalla morfologia urbana attraverso un sapiente «studio della città e della sua storia come base principale di ogni progetto architettonico e urbano».
Infine Elvio Manganaro tenterà di fare un bilancio conclusivo ponendo delle domande che sono essenziali per chi oggi, si occupa di didattica. Partendo da alcuni dei maestri della scuola italiana che hanno inteso l’architettura non solo come rappresentazione, ma come volontà di trasformazione che contempla una concezione del mondo e attraverso la scuola sono stati in grado di trasmettere «una base conoscitiva su cui sviluppare con autonomia e rigore l’espressione»(4), Manganaro arriva a sostenere che «il problema non sono le didattiche ma sono le forme, perché queste racchiudono dentro di loro un’idea di mondo». E anche quando le didattiche «hanno cessato da un pezzo di essere produttive […] le forme rimangono e continuano a lavorare [per questo motivo] è la forza persuasiva delle immagini che divengono condivise a cementare una scuola, non l’efficacia degli strumenti analitici adottati [e] gli etimi dei maestri si adottavano non per pigrizia o piaggeria, come possono insinuare le anime belle, ma per partecipazione a una precisa idea di mondo».

Tommaso Brighenti


Note
(1) Caragonne, A., (1995). The Texas Rangers. Notes from an architectural underground. Cambridge: The Mit Press.
(2) Rogers, E. N. (gennaio 1962). L’utopia della realtà. Casabella-continuità, 259.
(3) Ibidem.
(4) Canella, G. (1984). La reinvenzione tipologica. In Fiori, L., Boidi, S., Disegni e progetto del centro civico di Pieve Emanuele. Milano: Abitare Segesta, 17.

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