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La città ordinata. Dispositio e Forma Urbis

DOI: 10.12838/issn.20390491/n32.2015/edit

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Editoriale:
La città ordinata. Dispositio e Forma Urbis

di Lamberto Amistadi

“L'architettura consiste nel mettere ordine, che in senso greco si dice taxis, nel disporre, che i Greci chiamano diathesis, nell'euritmia, nella simmetria, nel decoro e nella distribuzione, che in greco si dice oikonomia.” (Vitruvio, I libro, I.II)

Generalmente, una ricerca si svolge a differenti livelli, che, nel loro insieme, definiscono la natura dell'oggetto di studio. Nonostante una lunga tradizione epistemologica abbia certificato come tale natura possa essere descritta, rappresentata e comunicata secondo differenti “stili” (1) e a diverse profondità (2), non di rado queste differenze vengono assunte come pretesti, più o meno consapevoli, per contrapposizioni di ordine ideologico. Ciò è avvenuto, per esempio, nel mondo dell'arte rispetto al quale Yve-Alain Bois (3) ci mette in guardia dal pericolo della asymbolia, che definisce come una sorta di patologia, che limita la capacità dell'uomo di percepire ed accettare significati coesistenti; si tratterebbe di un'atrofizzazione della funzione di simbolizzazione. Come ogni sistema simbolico, a maggior ragione l'architettura, a causa della sua complessità, non solo permette ma necessita di  diversi livelli di descrizione e di rappresentazione. Questo lo aveva capito molto bene John Hejduk, che non mettendo limiti all'immaginazione, spiegava come l'intuizione creativa possa innestarsi in qualsiasi momento e a qualsiasi livello del processo di produzione dell'opera: l'architettura non può essere concepita a partire da una sola immagine, ma si compone di una serie di immagini parziali, che crescono attorno ad un nucleo figurativo “interno” (l'occhio della mente). Solo che tale nucleo può spaziare verticalmente dall'immagine del volto alla sua struttura osteologica, dalla natura alla composizione, per dirla con van Doesburg, tra lo schema e la sua espressione finale, o per Chomsky, dallo spazio superficiale del significato e dell’espressività a quello profondo, severo e astratto, che ne sostiene e ne permette le articolazioni.

Anche gli scritti di questo numero 32 di FAmagazine (sezione Teoria della intenational call for paper 2015), che riguardano il concetto vitruviano di dispositio in relazione alla forma della città e ad una strategia insediativa, non possono fare a meno di cavalcare l'onda lunga che oscilla tra astrazione e figurazione e, ancor più lunga, tra formale e informale. Lo stesso Le Corbusier riconosceva il valore strutturale “profondo” e astratto della pianta, definendola “un'austera astrazione” e “un'algebrizzazione arida”. (4) Assumendo come termini opposti ed estremi di questa tensione lo spazio “striato” (Palma) e lo spazio “liscio” (Mical) non possiamo fare a meno di chiederci, facendo la tara alle differenze terminologiche, che una disciplina “debole” come la nostra prevede, e alla distanza culturale dei nostri interlocutori, se il “campo di possibilità” che la natura strumentale del concetto di dispositio dispiega possiede un valore latente. In altre parole, se sia possibile definire tali possibilità di relazione tra gli elementi di un contesto urbano, indipendentemente dalla loro manifestazione e quindi indipendentemente dalla natura dello spazio, liscio o striato, la cui contrapposizione non riguarda tanto la natura delle relazioni quanto la loro stabilità nel tempo: “inscritte” antropologicamente piuttosto che “morbide” e reversibili. Ma forse, la differenza fondamentale tra questi modelli riguarda la capacità della morfologia del sito (che già Canella definiva come “invariante”) o, più in generale, di una struttura formale preesistente di porre un limite al numero delle possibilità disponibili ad una combinatoria. Quello della finitezza delle possibilità è veramente un punto dirimente all'interno di questa prospettiva topologica. Le rappresentazioni cartografiche del suolo offrono un punto di partenza rispetto al quale la nuova organizzazione dello spazio dovrà essere coerente (Palma). I mandala (Schirra) rappresentano configurazioni geometriche predefinite che permettono l'approntamento di “numerose”, ma finite nuove sequenze spaziali e sviluppi architettonici. Dalla scala della città a quella dell'abitazione il tatami (Malfona) funge da sfondo ai movimenti precisi e calcolati attraverso i quali è scandita la cerimonia del tè. I concetti di campo, suolo, tappeto, tatami, mandala, zolla (Costanzo) corrispondono a diverse strategie configurazionali, a diversi livelli del processo, che scorre tra il singolo elemento e l'implosione retorica (il lapsus di Lacan) e soprattutto rappresentano strumenti di indirizzo delle possibilità, che, per quanto numerose, devono essere considerate finite. Le figure piranesiane del Campo Marzio rappresentano bene questa tensione tra ordine e disordine, ma soprattutto la latenza di diverse possibilità configurazionali, a diversi livelli, secondo diversi gradi, fino ad implodere nel “rumore bianco”, in cui queste possibilità coesistono e si annullano vicendevolmente. 

Il secondo argomento che si articola a partire da questi concetti è quello della continuità e della discontinuità dello spazio urbano. Anche in questo caso ci rendiamo conto di come questa non rappresenti l'opposizione fondamentale, perché posta in termini quantitativi (semmai potrebbe corrispondere all'altro concetto vitruviano, quello di ordinatio, che si esprime attraverso la quantitas rappresentata dal modulo). Difatti, a partire dalla condizione di prossimità, a quale distanza tra i volumi/corpi possiamo dire che cominci la discontinuità? Diversamente, quella tra spazio greco e spazio prospettico (Froio) non è una distinzione tra continuità e discontinuità, ma tra l'identità dei corpi in cui si articola lo spazio greco e l'indifferenza astratta dello schema prospettico. Questo lo aveva capito bene Erwin Panofsky, che include tra le alternative primarie dell'intenzione artistica quella tra “spazio aperto” e “spazio chiuso”, ponendola come alternativa tra “unità volumetriche (corpi) ed estensione illimitata (spazio)” (5), ossia tra “differenziazione” e “continuità”. Ma la “differenza” non è solo una qualità topologica, essa è prima di tutto una qualità semantica, è ciò che permette l'intellegibilità di un elemento all'interno di una configurazione. Se chiamiamo “vuoto” lo spazio che scandisce il ritmo e regola la distanza tra gli elementi e i riti del fenomeno architettonico, allora il termine non può che essere inteso in termini semantici, alla maniera molto bella in cui lo spiega Martí Arís in Silenzi eloquenti o come Mallarmé utilizza gli spazi bianchi nella sua poesia. In altre parole, per quanto i  concetti come campo, suolo, tappeto, tatami, mandala, zolla rappresentino possibilità topologiche e configurazionali, il loro valore strutturale, il loro essere “sfondo”, non può che essere inteso anche e soprattutto in termini retorici e semantici, cioè come lo sfondo e la struttura che permettono la definizione di configurazioni significative.

1. Cfr. A. G. Gargani, Stili di analisi. L’unità perduta del metodo filosofico, Milano 1993.
2. Cfr. N. Chomsky, L'analisi formale del linguaggio, Torino 1969.
3. Cfr. I. Alain-Bois, Painting as Model, Cambridge/London 1993. Introduzione.
4. Le Corbusier, Verso una Architettura, (1921), Milano 1999, pp. 35-37.
5. E. Panofsky, Il significato nelle arti visive (1955), Torino 1999, p. 24. Sul rapporto in architettura tra spazio come ente cartesiano indifferenziato e corpi vedi anche: L. Semerani, “Il parco metropolitano del nord est”, in Aa.Vv, SS9 via Emilia, Milano 2000.


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