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Legge e cuore. Analogia e composizione nell'architettura

DOI: 10.12838/issn.20390491/n39.2017/edit

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Editoriale:
La legge e il cuore.
Analogia e composizione nella costruzione del linguaggio architettonico

Lamberto Amistadi, Francesco Primari

Nel suo Dictionnaire historique d’architecture, Quatremère de Quincy osserva come il concetto di dispositio offra «un significato così generale ed illimitato, che potrebbe ridursi a quest’articolo tutta la teoria dell’architettura» (1). Pur tuttavia il teorico francese, nel tentativo di darne un significato più stringente e fungibile, rileva come tale vocabolo si applichi «quasi sempre ad un’idea d’ordinanza generale» e proprio in questo si distingua dal concetto di distribuzione, limitato all’ordinamento particolare dei locali; caratteristico della dispositio è l’abbracciare «tutte le parti dell’architettura e tutti i rapporti di un edificio», essendo «rispetto ad un fabbricato, ciò che la conformazione è rispetto ad un corpo». Un’idea strutturale della forma appare dunque intrinseca a questo concetto, che indica la legge secondo la quale l’architettura trova la sua composizione. Leon Battista Alberti affida questa qualità strutturale della concezione dell’opera ai lineamenta, vere e proprie tracce costitutive della forma e linee essenziali dell’idea, la cui ragion d’essere «consiste nel ricercare un’impostazione universale per adattare e congiungere tra loro linee ed angoli, per mezzo dei quali l’aspetto degli edifici risulti perfettamente definito», (2) ricercando «un’appropriata collocazione, una rispondente proporzione, un genere architettonico adeguato e un ordine armonioso, affinché la forma e la figura dell’edificio riposino interamente in questo disegno». Il carattere astratto dei lineamenta dà la possibilità all’Alberti di «progettare intere forme a prescindere dalla materia», svincolando il progetto dal modello e dalla “citazione figurale”. Dunque, un carattere della dispositio sembra essere questa sua immaterialità, l’essere cioè una legge che ordina la materia – o se vogliamo, la costruzione – senza tuttavia esserne vincolata.
Nella sua Autobiografia scientifica, Aldo Rossi ci ha lasciato un bel frammento, in cui scrive: «Dell’analogia di Dumal mi colpiva forse soprattutto la sua affermazione circa “la velocità sbalorditiva del già visto” che ricollegavo all’altra definizione di Ryle per cui l’analogia è la fine di un processo» (3). La forma sintetica di questo aforisma racconta diverse verità, oltre al disappunto di Aldo Rossi per le “fasi intermedie” (4): se di processo si deve trattare, cerchiamo almeno di non tenerlo troppo in sospeso, appelliamoci alla “velocità sbalorditiva del già visto”, all’istantaneo dell’associazione analogica e depositiamone finalmente la forma. Tale forma non è dunque il prodotto di alcuno sviluppo conseguente che, a partire da uno schema astratto, si incarna via via nella concrezione architettonica; si tratta piuttosto di una composizione per frammenti, la cui natura è insita fin dall’inizio proprio nella sua fattualità, nell’estremo realismo dell’oggetto strappato al suo contesto, ossia quelle “citazioni figurali”, servendosi delle quali Benjamin avrebbe voluto comporre un’intera opera.
I testi di questo numero 39 di FAMagazine si muovono – percorrendolo per intero o, per lo meno, definendone i capi opposti – lungo lo spazio teorico che copre la distanza tra composizione e montaggio analogico, intesi entrambi e non esclusivamente come gli strumenti per la costruzione del linguaggio dell’architettura. Se vogliamo, si tratta ancora di una questione di tempo, il tempo del processo della Composizione architettonica e il suo oscillare tra l’istante in cui il “già visto” viene richiamato più o meno coscientemente alla memoria – seguendo le ragioni del cuore – e lo sviluppo di un percorso il cui tragitto è indirizzato da un metodo – osservando il rigore di una legge. La legge, l’ordine e la razionalità sostengono e promuovono la ricerca incessante di un metodo, la cui formulazione diventerà una delle ossessioni dell’Illuminismo.
Caballero ripercorre alcuni momenti salienti dell’evoluzione delle leggi del pensiero compositivo attraverso  l’insegnamento di tre grandi architetti e teorici del XIX – Durand, Guadet e Wagner. Se per Durand la composizione può ancora aspirare a nuove totalità attraverso la reductio della forma alla geometria e alle sue infinite possibilità combinatorie, Guadet focalizza la sua attenzione sugli elementi, indipendentemente dall’ordinamento di una qualsivoglia legislazione. A partire da questo atomismo elementare degli elementi costruttivi, Otto Wagner sarà in grado di soppiantare la composizione stilistica dell’architettura in nome della nuova sintesi tettonica di una Moderne Architektur. A fronte della disillusione insita nel pensiero elementarista – e funzionalista e tecnicista – in merito alla possibilità della dispositio di presentarsi come legge dell’architettura, attraverso la quale rappresentare l’unità del mondo nell’unità dell’architettura, Gorgeri rileva gli “orizzonti mutevoli” entro i quali riconoscere inaspettate dispositiones, tramite le quali recuperare la composizione al suo ruolo di scienza di una disciplina comprensibile e trasmissibile. Da un lato, ciò è possibile tentando la riduzione dell’architettura a pochi elementi – i piani e le superfici di Mies, le stanze mai completamente concluse di Kahn, ma anche il tipo ad aula nell’architettura di Monestiroli, di cui ci parla il saggio di Russo – e ristabilendo le leggi di una tettonica che, come una sorta di basso continuo, forniscano la base su cui sperimentare una nuova economia della forma. Dall’altra parte, in un universo infranto e privo di lineamenta credibili e capaci di con-tenere, è possibile appellarci al ruolo produttivo dell’immaginazione. Le immagini recuperate da collezioni mnemoniche emergono alla coscienza come figure disponibili ad un “assemblaggio atonale”, fatto di opposizioni e disaccordi, posizionate e ricollocate in fratture dello spazio e del tempo, ora non più continui. Esse paiono fluttuare come frammenti su uno sfondo indistinto, in attesa della decifrazione del rebus che disegnano. La trasgressività di cui sono portatrici coinvolge lo spettatore in un lavoro di decodificazione e ricodificazione della legge analogica che sottende il loro stare-insieme e lo chiama al riconoscimento della  grammatica e della sintassi di una lingua inedita. Lo stesso Sorrentino rileva come, nel processo analogico, l’immagine non sia solo il riferimento statico di una ri-produzione del “già visto” ma, nel decantarsi della memoria, nel filtro selettivo dell’oblio e nel contaminarsi di associazioni impreviste, essa costituisca il motore di un vero e proprio processo di riproduzione poietica della realtà. E ancora: se l’analogia si fonda su di una libera associazione che non soggiace alla mimesis di una legge ontologica preordinata – e pur tuttavia vuole affermarsi essa stessa come ordinamento – quale sarà il campo entro il quale le figure e loro associazioni dovranno prodursi? Sarà necessario limitarsi all’associazione di immagini che rientrano nell’ambito disciplinare dell’architettura, o non sarà proprio del processo analogico utilizzare materiali eteronomi, ossia non è già insita nel procedimento analogico e nella sua trasgressività una vocazione transdisciplinare? A questa domanda sembra rispondere, in parte, il saggio di Primari, per il quale l’attingere di Giovanni Muzio al repertorio figurativo di Sebastiano Serlio per comporre la sua Ca’ Brütta non può che assumere il valore di una scelta di “tendenza”. L’architetto lombardo, infatti, è l’artefice di una reinvenzione analogica del linguaggio architettonico, che, a partire dalla selezione di un repertorio definito di architetture, amate e studiate nel loro valore formale e urbano, finisce col ritrovare un principio d’ordine che gli permetta di liberare il linguaggio architettonico dalle morse dell’eclettismo umbertino. Questo recupero del patrimonio classico, individuato da Muzio nelle sue numerose rinascenze – dai maestri comacini, eredi della sapienza costruttiva romana, ai grandi trattatisti del XV e XVI secolo, fino all’esperienza neoclassica milanese – esplicita il tentativo genuino di ritracciare il solco di una condivisione – ormai solo di “tendenza” –  all’interno della disciplina architettonica. La XIV Biennale di Architettura di Venezia, come ci ricorda lo scritto della Belloni, ha rivissuto (ironicamente?) il dramma della perdita definitiva dell”aura”, a cui la società della tecnica ha ridotto (si tratta, in questo caso di un altro tipo di riduzione, certamente più dolorosa) gli elementi dell’architettura. Riproposte all’interno di una mostra in cui Koolhaas espone senza esporre (perché già “nudi” fin dall’inizio) gli elementi di un catalogo di prodotti edilizi, anche le facciate della Strada Novissima (5) ci appaiono prive di significato.
Il tipo di collezione di cui ci parla Benjamin è qualcosa di molto diverso. Per lui, si tratta di salvare – nell’impossibilità di restituire il mondo alla sua integrità perduta – quegli oggetti, elementi o “piccole cose” dimenticate che hanno preservato il loro significato e la loro autenticità. Si tratta di separare e di conservare ciò che è più «prezioso e raro» come il corallo e le perle, liberarle dalla schiavitù dell’utile e farne il materiale con cui rigenerare il mondo. Che poi è il cruccio di ogni civiltà, del razionalismo dell’Illuminismo come anche di quell’epoca barocca che la Rivoluzione tenta di soppiantare e che poneva l’immaginazione al centro del progetto di salvazione: «L’arte è il prodotto dell’immaginazione e il suo fine precipuo è di insegnare a esercitare l’immaginazione. È importante perché senza immaginazione non vi è salvezza. Proporsi la salvezza significa ammettere che la salvezza è possibile, immaginarsi salvi: significa immaginarsi al di là della contingenza della realtà quotidiana» (6). Questa doppia via per la salvezza – quella della legge e quella del cuore – si riflette nella consistenza che assumono i materiali con cui gli architetti danno forma al linguaggio: elemento, pezzo, frammento, parte. Si tratta, ad ogni modo, di passare al setaccio la realtà dell’architettura, cioè si tratta degli occhi con cui la si guarda, del filtro che si applica al proprio apparato percettivo, dello “stile di analisi” (7) che si adotta. Ciò che rimane sul fondo può essere l’elemento di quella “austera astrazione” e “arida algebrizzazione” di cui parla Le Corbusier (8) a proposito della pianta e che composto e issato secondo una tettonica gravitazionale ed una sapiente dipositio albertiana dà origine all’articolazione del linguaggio a partire dal sintagma colonna-colonna-architrave; oppure questo “resto”, questo “ciò che rimane” ha la consistenza corporea del pezzo, già pronto e disponibile ad essere assemblato e montato in una nuova e diversa configurazione semantica. E tra di loro fa capolino il frammento col suo fascino misterioso e tutta l’ambiguità di una Topica, che – come tutte le topiche – è per metà codificata e per metà proiettiva. Lo spiega bene Roland Barthes nei suoi Frammenti di un discorso amoroso: «Ciò che qui si è potuto dire dell’attesa, dell’angoscia, del ricordo, non è mai altro che un modesto supplemento offerto al lettore affinché se ne impossessi, vi aggiunga del suo, vi tolga ciò che non gli serve e lo passi ad altri: intorno alla figura i giocatori fanno correre il furetto; talora, con un’ultima parentesi, l’anello viene trattenuto ancora un istante, prima di passarlo. (Idealmente, il libro [l’opera, l’architettura] sarebbe una cooperativa: “Ai Lettori – agli Innamorati – Riuniti”)» (9).

Note
1. Quatremère de Quincy, Dizionario storico di architettura, a cura di V. Farinati e G. Teyssot, Marsilio, Venezia 1985, alla voce “Disposizione”, p.192.
2. Leon Battista Alberti, De re aedificatoria, ed. pr., fol. 4r e 4v; trad. it. in  L’arte di costruire, a cura di V. Giontella, Bollati Boringhieri, Torino 2010,  pp. 11-12.
3. A. Rossi, Autobiografia scientifica (1981), Pratiche Editrice, Milano 1999, p. 116.
4. «Questo “giungere” contiene un inizio e una fine e così senza pensare più a questo mi sarei anni dopo soffermato sul valore dell’inizio e della fine indipendentemente dalle fasi intermedie». Autobiografia scientifica, p. 117.
5. Effimero: or the Postmodern Italian Condition, XIV Biennale di Architettura di Venezia
6. G. C. Argan, Il Barocco nelle arti, in Storia dell’arte italiana, Firenze 1968.
7. Cfr. A. G. Gargani, Stili di analisi. L’unità perduta del metodo filosofico, Feltrinelli, Milano 1993.
8. Le Corbusier, Verso una architettura (1921), Longanesi, Milano 1999, pp. 35-37. Cfr. L. Amistadi, Il disegno della città, in Architettura e Città. Saggi, Festival Architettura Edizioni, Parma 2016.
9. R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso (1977), Einaudi, Torino 1979, p. 6,7.
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