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Designing Centrality, Regenerating the Suburbs


Editoriale: Disegnare la città

L’idea di questo numero nasce dalla sollecitazione del tema affrontato nel secondo Workshop Europeo di Progettazione IPErasmus, Compact City Architecture, svoltosi a Parma dal 19 settembre al 4 ottobre 2013 con il coinvolgimento di docenti di progettazione appartenenti a cinque università europee; Carlo Quintelli, Università degli Studi di Parma, Facoltà di Architettura; Ondrej Cisler, Czech Technical University of Prague, Faculty of Architecture; Aykut Karaman, Mimar Sinan Fine Arts University, Istanbul, Faculty of Architecture; Susan Dunne, Ecole Nationale Superieure d’Architecture de Nantes; Gesine Weinmiller, Hafencity Universitat Hamburg - Faculty of Architecture.

Dopo una prima edizione intenta a misurarsi con il tema del Campus urbano dell’Oltretorrente di Parma, – che ha visto il confronto tra docenti di diverse scuole europee come Eduard Bru, Universitat Politècnica de Catalunya – Escola Tècnica Superior d’Arquitectura de Barcelona; Uwe Schröder, RWTH, Rheinisch-Westfälische Technische Hochschule of Aachen – Fakultät für Architektur; Manuel Iñiguez & Alberto Ustarroz, Universidad del Pais Vasco – Escuela Técnica Superior de Arquitectura de Donostia-San Sebastian; Piotr Gajewski, Politechnika Krakowska, Wydział Architektury – questa seconda edizione affronta il tema della rigenerazione della periferia mediante la costruzione di nuove centralità.

Sottintendendo alcuni aspetti di base che possono essere assunti quali premesse ad una crisi della città come comunità di abitanti: il declino del centro storico, “cuore della città” e la carenza di centralità urbane nelle periferie.

Due questioni che si sono alternate nello svolgersi della seconda metà del Novecento (a partire dal CIAM VIII, The Heart of the City, fino al dibattito sulle periferie di fine secolo) scaricando di volta in volta il problema della costruzione della città su specifici aspetti (il centro storico; la periferia monofunzionale; il decentramento amministrativo) senza mai considerarne la struttura generale e relazionale (interna e esterna).

Lo descrive Guido Canella nell’articolo di apertura di FAmagazine, ripubblicato per gentile concessione degli Eredi Guido Canella, pubblicato originariamente come editoriale del numero 13 della rivista «Zodiac» (1995) interamente dedicato alla periferia ed alla sua relazione con la città e il territorio. Relazione, quest’ultima, di fondamentale importanza individuata come costante nella cospicua produzione teorica e progettuale di Canella che da architetto (così come Quaroni) guarda alla città sottolineando il limite di un approccio tecnicistico e particolaristico degli urbanisti cosiddetti “togati” e contrapponendolo all’atteggiamento dei cosiddetti “ingegneri di città” di matrice politecnica ed in particolare milanese.

Ma Canella, indirettamente, ci da anche la più straordinaria definizione di città: “corpo vivente, nel connaturato respiro emanato per dotazione genetica, fisiologica sul territorio; e pertanto (…) essa [la città], al di là di ogni apparenza, possiede una struttura nascosta — struttura e soprastruttura, come già usava dire —: una vera e propria ossatura resistente nel tempo a sostegno, fin quando vi riesca, di cartilagini e connettivi; e che soltanto a partire da questa ossatura essa può essere regolata per restare coerente al proprio ruolo nello sviluppo e nella contrazione, nella trasformazione e nella conservazione della sua compagine”. Così che, nel suo scritto, “la diffusione del centro” sta ad indicare una necessaria ricerca dell’essenza della città non solo all’interno dei confini amministrativi, quanto piuttosto nel suo più ampio ed articolato rapportarsi alle altre città e al territorio in un regime di mutuo scambio determinante per la stessa città.

Se ne deduce che comprendere il fenomeno urbano in tutte le sue diverse declinazioni all’interno di un quadro storico specifico (anche contemporaneo) è di fondamentale importanza per progettarne le sue parti architettoniche e/o urbane in nome di una ritrovata reciprocità tra architettura e città, condizione, quest’ultima, la cui assenza è alla base della crisi (di relazioni, di spazi, ma anche di immagine) della città contemporanea che si costruisce senza modelli di riferimento delle espressioni insediative. Ciò significa, secondo Carlo Quintelli, autore del secondo articolo, essere andati “oltre la città”, “oltre il suo spazio e oltre il suo senso”: a questo va necessariamente contrapposto un “tornare alla città” attraverso il recupero di una “progettualità urbana autentica, scaturibile attraverso un soggetto città che progetta il proprio corpo (forma) e il proprio ruolo (funzione) nella consapevolezza della propria fisiologia (rapporti), dove le individualità si integrano in una processualità evolutiva unitaria e strutturata, solo in quanto urbana”.

Di concerto a queste due posizioni mi spingevo, nel mio articolo, a considerare le periferie come una grande opportunità per la rigenerazione dell’intera città contemporanea. “Se ipotizziamo (…) di poter interagire nella capacità di scelta dei “centri di riferimento” o “centri dominanti” della periferia, possiamo far si che il progetto [delle nuove centralità nelle periferie] operi la caratterizzazione dello spazio nella creazione dei nuovi luoghi attraverso architetture figurativamente importanti, tipologicamente complesse e funzionalmente articolate”. Facendo ciò potremmo al tempo stesso risolvere, se non tutte, alcune delle problematiche che a tutt’oggi affliggono la città periferica come l’indifferenza formale, la caratterizzazione dello spazio (indipendentemente dalla sua densità), la carenza di servizi e la conseguente gravitazione su altri centri esterni, il riconoscimento della comunità nel luogo in cui vive.

A completamento dei primi tre saggi della rivista, che analizzano il fenomeno della città contemporanea alla luce delle evidenti contraddizioni dando indicazioni di direzione per progettarne il futuro, ulteriori due saggi di Ondrej Cisler e Susan Dunne, presentano altrettanti modi di intervento progettuale nella città debitori di posizioni culturali e teoriche differenti. Mentre il quadro diagnostico è comunemente condiviso tra le diverse posizioni, - la crisi della città contemporanea -, diversa risulta essere la cura proposta: dall’interno ed a piccola scala più simile alla microchirurgia urbana, quella di Cisler e dall’esterno ed a scala più grande più simile alla macrofisiologia insediativa, quella di Dunne.

Ondrej Cisler utilizza un approccio minimalista in cui l’intervento alquanto piccolo e misurato, come nelle leve di Archimede, è in grado di moltiplicare il suo effetto nella città grazie ad una lettura gerarchica topografica e funzionale in grado di individuare l’esatto punto di collocazione del fulcro. E quasi con fare deterministico scrive: “Non abbiamo bisogno di cambiare le intere città ma in qualità di architetti, come nell'agopuntura, possiamo cambiare solo i punti cruciali e il resto si muoverà da solo nella giusta direzione”.

Nonostante la fede incondizionata, non tanto nell’architettura quanto negli effetti che esse è in grado di provocare nel sistema urbano, è da sottolineare un approccio che cerca di tenere insieme le diverse scale di intervento della progettazione, da quella urbana rappresentata dalla Roma del Nolli, a quella dell’architettura del singolo elemento nella città, rappresentata dal progetto per le fontane in Republic Square a Pilsen.

Mentre Susan Dunne dimostra, attraverso l’esempio del laboratorio di Changing Cities, che la forma della città dispersa in quanto non convenzionale abbisogna di altrettanti strumenti e approcci non convenzionali, sostenendo però anche che “La natura informale delle strutture spaziali e sociali della città dispersa non sono solo da ricercarsi nella periferia a bassa densità o negli sviluppi marginali, ma sono visibili in molti centri urbani, dove l’emigrazione dal centro della città ha creato una città disomogenea di giorno e fantasma di notte”. Contro le forme di dispersione sociale del centro urbano e formale della periferia Dunne invita ad una maggior comprensione delle nozioni di spazio pubblico, di scala, diversità e flessibilità delle città contemporanee: i progetti portati ad esempio, (ma sarebbe più corretto parlare di idee di progetto o forse ancor meglio di programmi) benché sviluppati da studenti, sono frutto di un approccio ampio, partecipato e condiviso tra i vari attori: disciplinarmente figlio dell’Architettura, dell’Urbanistica e della Sociologia.

L’ultimo articolo, infine, delinea nel panorama dei quartieri di edilizia sociale della città europea e attraverso l’analisi critica di casi concreti di trasformazione degli stessi, la concreta possibilità di modernizzazione della città del XXI secolo. Chiedendosi, retoricamente, “se i quartieri dell’abitazione di massa costituiscono oggi dei fatti urbani riconoscibili e se possono divenire dei poli ordinatori dotati di una propria specificità insediativa, quasi dei nuovi centri urbani per i caotici territori della periferia”, Valter Balducci introduce la questione della “morfologia” e del “disegno urbano” di quelle parti di città ben identificabili (a partire dal progetto), che rappresentano gli ultimi baluardi di una tradizione di un disegno compiuto e vasto che si è dissolto lasciando il posto ad interventi solitari e autoreferenziali. L’aspetto della riconoscibilità porta inevitabilmente a quello del disegno della città e alla conseguente responsabilità insita nel ruolo dell’architetto di dare forma concreta ai bisogni: un disegno in grado di dare “figura ed espressione di forma alla città” come diceva Quaroni.

Allora ci si potrebbe chiedere se è ancor oggi possibile una prefigurazione urbana, oppure se ciò non sia in contrasto con l'Assioma d'incompletezza della città che Derrida individua come necessaria apertura verso la propria continua trasformazione.

Chi disegna la città? è l’interrogativo che Guido Canella si pone (Zodiac, n. 5-1991) lasciando filtrare l’incertezza e la confusione nell’attribuzione dei ruoli e delle responsabilità che caratterizzava i processi decisionali della città dei primi anni Novanta e che mutatis mutandis caratterizza ancor oggi la città a distanza di un quarto di secolo. Tante, forse troppe figure, che spesso travalicano i rispettivi ruoli in nome di una non più chiara alleanza tra poteri (politico, economico, sociale e via dicendo) che agiscono nell’interesse proprio specifico anziché collettivo degli abitanti.

Nella difficoltà di dare una risposta univoca, (gli amministratori? gli investitori? gli architetti? gli urbanisti?) possiamo se non altro riformulare la domanda ribaltando il problema, assumendoci come architetti una responsabilità che ci compete. In che misura l’architetto arriva ad incidere sul disegno della città?

Poco, se relega il suo ruolo a mero esecutore di idee altrui frutto degli interessi particolaristici dei molti attori coinvolti. Molto, se saprà riguadagnarsi un ruolo propositivo di interprete dei bisogni concreti indirizzandone coerentemente lo sviluppo all’interno delle proprie logiche identitarie.


Enrico Prandi


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