Scegli la Lingua

Festival dell'architettura

Ti trovi in: Home page > Archivio Magazine > L'arte come presupposto di integrazione e recupero

Pierfranco Galliani

L'arte come presupposto di integrazione e recupero

L'ex Ospedale psichiatrico Paolo Pini a Milano

Tesi di laurea magistrale in Architettura di Giussani W., Scaglia M., 'Dalla segregazione all’integrazione. Trasformazione urbana dell’area dell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini a Milano', relatore Galliani P., Politecnico di Milano, Scuola di Architettura e Società, a.a. 2010-11 - ZOOM

Tesi di laurea magistrale in Architettura di Giussani W., Scaglia M., "Dalla segregazione all’integrazione. Trasformazione urbana dell’area dell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini a Milano", relatore Galliani P., Politecnico di Milano, Scuola di Architettura e Società, a.a. 2010-11

Abstract

L’ex Ospedale Paolo Pini a Milano è paradigmatico di un modello morfologico autoreferenziale ed estraneo all’ambiente circostante, che si evidenzia in un sistema a padiglioni secondo un preciso diagramma funzionale per la cura delle malattie mentali. Dopo l’approvazione della legge per la chiusura degli ospedali psichiatrici, un processo di rifunzionalizzazione spontanea genera una profonda innovazione dell’immagine ambientale del luogo per mezzo dell’arte come servizio sociale.


Testo

L’ex Ospedale psichiatrico Paolo Pini a Milano è paradigmatico di un modello morfologico autoreferenziale ed estraneo all’ambiente circostante, rappresentando l’elaborazione di una evidente congiunzione tra matrici funzionaliste e principi insediativi.

Il periodo della sua realizzazione, gli anni 1921-24, risulta momento centrale del processo che tra ’800 e ’900 elabora un nesso profondo tra funzione e forma, tra presupposti del trattamento segregativo e caratteri dell’architettura manicomiale, collocandosi in coincidenza con l’istaurarsi del regime fascista che, in seguito, rafforzerà tale legame.

Declinazione specifica delle strutture ospedaliere generaliste e della loro evoluzione specialistica, gli ospedali psichiatrici adottano in larga misura il sistema morfologico a padiglioni quale figura esemplare di efficienza nella cura delle malattie, che permette di individuare nei singoli tipi edilizi che lo compongono, dirette corrispondenze rispetto alle attività necessarie alla sua stessa finalità, secondo un preciso diagramma funzionale interno.

Nei complessi architettonici per la psichiatria, l’impostazione a edifici autonomi si evidenzia con nette separazioni dei ricoverati in base al sesso, al genere di patologia, all’intensità di applicazione delle terapie. L’isolamento diviene un vero e proprio parametro nella concezione degli spazi, che collega la questione igienica a quella dell’ubicazione urbana.

L’impostazione dell’Ospedale psichiatrico Paolo Pini propone in particolare uno schema a griglia, attraversato da un asse centrale di simmetria lungo il quale sono disposti i corpi di fabbrica dei servizi generali: direzione, cucina, lavanderia. Ai lati, ruotati di 45° rispetto alla direttrice principale, sono ubicati i padiglioni di osservazione e di cura – quelli per gli uomini separati da quelli per le donne –, che risultano inseriti in un sistema di spazi aperti scanditi da percorsi bordati da filari di alberature dal ritmo serrato.

La non fruibilità dell’asse centrale come spazio libero e la parcellizzazione in aree pertinenziali degli spazi aperti negano la possibilità di elaborare una coscienza identitaria del luogo e quindi di favorire la socializzazione tra i ricoverati. E a rimarcare questa impostazione di frammentazione e anticoesione partecipa l’idea originaria che l’istituto milanese debba essere «quasi un aggregato di tanti piccoli manicomi, armonicamente disposti»[1].

Il principio dell’isolamento si manifesta nei nuovi presidi sanitari per la psichiatria anche per mezzo del loro allontanamento dal corpo della città storica. La dislocazione favorisce le posizioni lungo le cinture delle aree suburbane prossime alla campagna, che risultano di ampie dimensioni per i futuri ampliamenti, ben ventilate e soleggiate, dotate di grandi spazi liberi per giardini e per le attività agricole. L’esercizio del corpo, quale condizione necessaria alla guarigione, completa le basi di ciò che viene considerato un ospedale psichiatrico moderno: un “sistema chiuso”, «luogo eterotòpico»[2] nel quale il recinto diventa metafora della separazione e dell’esclusione.

Omologato a questi concetti, l’Ospedale Paolo Pini viene localizzato ad Affori, nella periferia nord del Comune di Milano. La sua totale immersione nella campagna marca i caratteri di isolamento sociale e di estraniamento contestuale[3]. L’impianto morfologico a padiglioni concretizza l’istanza meccanicista di massimo controllo, rispondendo alle esigenze di ordine che già nell’800 si erano imposte nella pianificazione delle città attraverso criteri di regolarità, ripetizione, gerarchia, separazione, portando alla definizione strutture specialistiche quali caserme, mattatoi e, appunto, ospedali.

Gli interventi di ampliamento negli anni ’50 del ’900 portano a una prima variazione dello schema organizzativo originario con l’inserimento di un nuovo padiglione a sud, completamente estraneo alla matrice dispositiva originaria. La rottura della disposizione simmetrica della planimetria si concretizza con ulteriori interventi tra la fine dello stesso decennio e il 1960 con la realizzazione di due nuovi padiglioni e di altre costruzioni minori[4], collocate a nord-est.

Negli anni ’60 prende inoltre avvio una fase di trasformazione contestuale del complesso di Affori. Nuove infrastrutture viabilistiche, estesi insediamenti residenziali e la costruzione, in posizione ravvicinata, di una scuola professionale comportano una considerevole erosione dell’estesa cornice naturalistica che il Comune di Milano aveva dato in uso all’ospedale per lo svolgimento delle attività agricole.

Il dibattito sulla riforma del sistema manicomiale italiano inizia quando il “Paolo Pini” è ancora una “macchina efficiente”[5] per la degenza psichiatrica obbligatoria e la successiva approvazione della legge 180 del 1978, la cosiddetta “riforma Basaglia”, che prevede la graduale chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici, comporta l’inizio di un processo di progressiva dismissione della struttura psichiatrica, che si concluderà ufficialmente nel 1998.

Da un lato, negli anni ’80 alcune trasformazioni d’uso dei padiglioni permettono l’inserimento di un istituto scolastico per l’istruzione media, servizi diagnostici e ambulatoriali ASL, oltre all’attivazione di comunità terapeutiche assistenziali “aperte”, in sostituzione delle divisioni psichiatriche di tipo tradizionale[6]; dall’altro, si evidenzia un processo di rifunzionalizzazione spontanea con la significativa presenza di associazioni che, con finalità pedagogiche e formative, spesso in simbiosi con le presenze istituzionali, propongono corsi professionali, iniziative culturali, laboratori d’arte tra i quali si evidenzia il MAPP, il Museo d’arte Paolo Pini, oltre alla gestione di alcuni nuovi servizi[7].

Se su un fronte si produce quindi una notevole frammentazione e discontinuità distributiva delle attività quale risultato del succedersi temporale delle trasformazioni e della parcellizzazione in differenti proprietà e competenze d’uso tra enti pubblici, favorite dall’originaria impostazione a padiglioni; su un fronte opposto si genera una sorprendente innovazione dell’immagine ambientale del luogo per mezzo dell’arte contemporanea, presente con opere di artisti italiani e stranieri all’esterno e all’interno di alcuni padiglioni.

Considerato come nel caso del “Paolo Pini” un realistico processo di futuro recupero architettonico e ambientale possa essere attuato attraverso inevitabili azioni architettoniche che rintraccino la possibilità di aprire il recinto segregativo e mediare, attraverso nuove parti costruite, una credibile relazione del tessuto nosocomiale con i brani urbani limitrofi, nel frattempo sorti in una sorta di indifferenza reciproca, occorre sottolineare come tutto ciò non possa avvenire senza considerare il “valore aggiunto” che l’arte ha introdotto in questo luogo.

Un’operazione duale, impostata a far interagire recupero e modificazioni fisiche con la tutela del patrimonio culturale ad oggi accumulato, si delinea quale percorso consapevole e attivo che va oltre gli stereotipi di una generica rifuzionalizzazione trasformativa.

Opere di oltre 140 artisti, concepite in luogo dal 1993, raccolte e conservate dal MAPP dal 1995, rappresentano un valore peculiare totalmente originale, che distingue l’ex ospedale di Affori dalla condizione espositiva e documentaria assunta da altri ex ospedali psichiatrici, divenuti musei di se stessi, luoghi spesso poco frequentati che commemorano il loro passato[8]. Realizzato con la collaborazione del Dipartimento di Salute Mentale dell’Ospedale Niguarda, sorto e cresciuto tramite l’attività dell’associazione Arca[9], il MAPP rappresenta appieno un’interpretazione positiva della “riforma Basaglia”, qui impostata a «riscoprire il valore umano di coloro che sono affetti da un disturbo psichico anche molto grave, integrarli nella vita sociale e culturale, oltrepassando le barriere che ancora li segregano in un mondo a sé»[10].

Il museo è oggi formato da una collezione permanente che comprende murales, installazioni e sculture inserite negli spazi a verde, sulle facciate e all’interno di alcuni padiglioni, e da una raccolta di opere realizzate da artisti insieme ai pazienti. «Le opere realizzate direttamente sui muri dell'ex manicomio sono espressione del valore intrinseco che racchiude ogni persona anche quando è gravemente malata nel corpo o nella mente»[11], ma il valore principale del programma messo in atto è rappresentato dal «rapporto interpersonale diretto che si stabilisce tra artisti e i pazienti» dove i primi fanno parte di una «équipe multiprofessionale composta da psichiatra, psicologo e arteterapeuta per realizzare con i pazienti opere “a quattro mani”»[12].

Testimonianza di una profonda trasformazione del modo di curare «che si realizza anche attraverso una specifica qualità estetica dello spazio che esprime la ricchezza di valori simbolici dell’essere umano»[13], il MAPP ha come luogo di riferimento lo spazio-galleria ricavato nel Padiglione 7 e inaugurato nel 2000, destinato a ospitare mostre temporanee di artisti impegnati nei progetti terapeutici, eventi culturali e parte della collezione. È da questo nucleo, dove “l’arte è servizio sociale”, che può prendere avvio, anche fisicamente, la ricerca di una centralità sempre negata nel vecchio ospedale psichiatrico.


Bibliografia

Civita A., Cosenza D. (a cura di),(1999), La cura della malattia mentale. Storia ed epistemologia, Milano.

Crippa M. A., Sironi V. A. (a cura di),(2009), Niguarda. Un ospedale per l’uomo nel nuovo millennio. Arte e storia della cura alla Ca’ Granda di Milano, Cinisello Balsamo.

Devoti C.,(2008), «‘Femmine e uomini che delirano senza febbre’: luoghi e modelli per la segregazione degli alienati», ’AΝΑΓΚΗ, 54, pp. 99-107.

Garavaglia G. F. e N.,(1964), Un secolo di assistenza psichiatrica nella Provincia di Milano, Milano.

Ientile R.,(2008), «Per non dimenticare: architettura come memoria scomoda della ‘follia’», in ’AΝΑΓΚΗ, n. 54, pp. 82-98.

Ripamonti L.,(1995), Affori: mille anni di storia, Milano.


Biografia

Pierfranco Galliani (1951), architetto, si è formato con Franco Albini e Franca Helg negli anni settanta, insegna Progettazione Architettonica dal 1994 al Politecnico di Milano, dove è professore ordinario presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani dal 2016. Nella stessa università, è docente della Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio dal 2011; è stato coordinatore del Dottorato di ricerca in Progettazione Architettonica e Urbana dal 2013 al 2016. Ha pubblicato scritti e condotto ricerche sulla continuità critica tra storia e progetto, sull’innovazione dei caratteri dell’architettura collettiva, sui valori di scala nella progettazione urbana.



[1] Garavaglia G. F. e N., Un secolo di assistenza psichiatrica nella Provincia di Milano, S.Ti.E.M., Milano 1964, p.59.

[2] Archetti M., Lo spazio ritrovato. Antropologia della contemporaneità, Meltemi, Roma, 2002

[3] Il riferimento al modello di colonia agricola, dichiarato inizialmente, risulta richiamare solo in apparenza i presupposti dei villaggi di nuova fondazione.

[4] Vengono realizzate la chiesa, la camera mortuaria, il convitto per le suore.

[5] Il livello di autonomia funzionale è molto accentuati: la produzione agricola e artigianale interna permette l’autosufficienza delle necessità alimentali e un contributo sensibile alla gestione economica generale.

[6] Il piano viene approvato dalla Regione Lombardia nel 1986.

[7] Il MAPP è nato dall’attività dell’associazione Arca onlus, attiva dal 1986. Il Giardino degli Aromi onlus, associazione fondata nel 2003, gestisce percorsi di terapia orticolturale, iniziativa già presente in altre forme dal 1999; la cooperativa sociale onlus La Fabbrica di Olinda, attiva dal 1999, gestisce servizi di bar, ristorazione e catering, un ostello ricavato nell’ex convitto delle suore, attività teatrali.

[8] Il MAPP costituisce la sezione artistica del Museo Regionale della Psichiatria di proprietà dell'Ospedale Niguarda che comprende anche una sezione storico clinica del Paolo Pini, costituita dall'Archivio delle Cartelle Cliniche (1944-2002) e dall'Archivio dell'Atelier Storico V. Bianchini (1981-2002).

[9] L’associazione Arca Onlus, fondata da Teresa Melorio, psichiatra, ed Enza Baccei, psicoterapeuta, si è fatta carico della fase progettuale, programmatica e operativa del progetto MAPP Museo d'Arte Paolo Pini e delle Botteghe d’Arte, proponendosi come referente teorico, metodologico e tecnico delle attività di arte-terapia.

[10] www.mapp-arca.it

[11] Ibidem.

[12] Melorio T., Baccei E., «Arte e psiche: il Museo d’Arte Paolo Pini e le Botteghe d’Arte», in Crippa M. A., Sironi V. A. (a cura di), Niguarda. Un ospedale per l’uomo nel nuovo millennio. Arte e storia della cura alla Ca’ Granda di Milano, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2009, p. 162.

Padiglione 4: Stefano Pizzi,                                “Fiore fuori di zucca”, 1995 - ZOOM

Padiglione 4: Stefano Pizzi, “Fiore fuori di zucca”, 1995