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Giuseppina Scavuzzo

Progetto e libertà terapeutica

Parco Basaglia a Gorizia

Il Manicomio Francesco Giuseppe I nel 1911,      l’Ospedale Psichiatrico Provinciale degli anni ’30 e il parco Basaglia oggi. 
Modelli del Laboratorio di progettazione 
architettonica 3, docente G. Scavuzzo

Il Manicomio Francesco Giuseppe I nel 1911, l’Ospedale Psichiatrico Provinciale degli anni ’30 e il parco Basaglia oggi. Modelli del Laboratorio di progettazione architettonica 3, docente G. Scavuzzo

Abstract
Il parco Basaglia, ex ospedale psichiatrico di Gorizia, è luogo emblematico della rivoluzione medica e civile che Franco Basaglia inizia da qui, alla sua prima esperienza come direttore, nel 1961.
Da alcuni anni il parco è oggetto di studio e area di progetto del Corso di Laurea in Architettura dell’Università di Trieste. Si può progettare, dentro e fuori dall’Università, credendosi liberi di trattare lo spazio in termini astratti o quantitativi, oppure muovendo dalla lettura delle tracce, materiali e immateriali, presenti in un luogo per immaginarne un futuro necessario e possibile.
L’ex ospedale psichiatrico di Gorizia, con la sua storia, non è solo un’area nella quale esercitare le forme del progetto, è un giacimento culturale di pensiero critico che può offrire alla scuola di architettura l’occasione di interrogarsi su questioni cruciali: come, in una fase di architettura post-critica, si può dare forma, rappresentare e forse imparare da una battaglia del pensiero critico nata dalla psichiatria ma che mette in guardia da tutti i poteri normalizzanti, l’oggettivazione delle soggettività, la riduzione all’a-problematicità?
L’adiacenza del parco al confine, già italo-jugoslavo parte della cortina di ferro, oggi più pacificamente italo-sloveno, l’impianto risalente ai primi del ‘900 e le successive trasformazioni, le vicende storiche delle quali è stato teatro, fanno emergere come centrali per il progetto i temi: dell’identità, dell’architettura e di chi la abita; del limite, nelle accezioni materiali e in quelle immateriali; della memoria, della consistenza materiale dell’architettura esistente e di una battaglia civile, sociale, etica, per la libertà di chi cerca se stesso in modo anche problematico. Che è poi l’unico modo di cercare davvero, anche in architettura.

Testo
Il Manicomio Provinciale Francesco Giuseppe I viene inaugurato nella Gorizia austriaca il 16 febbraio del 1911.
Il progetto segue quanto previsto allora per un manicomio all’avanguardia: padiglioni disposti simmetricamente rispetto all’asse dei servizi e inseriti in un parco dall’impianto geometrico con inserti informali e zone alberate. Un riferimento è lo Steinhof, il manicomio di Vienna realizzato nel 1907 da Otto Wagner, e in generale il modello del manicomio open door improntato all’utopia positivistica della psichiatria a cavallo tra fine ‘800 e inizio ‘900. Qui l'architettura è parte del programma terapeutico perché offre ai ricoverati la percezione di abitare una parte, amena e protetta, della città.
L’area, a sud-est del centro di Gorizia, viene scelta per la fertilità del terreno, la posizione al riparo dai venti e la disponibilità d’acqua, condizioni favorevoli per la colonia agricola che rende il manicomio autosufficiente dal punto di vista alimentare. Aperto con 350 posti letto, in un paio d’anni raggiunge quasi quota 500.
La Prima Guerra mondiale interrompe l'attività del manicomio, che subisce gravi danni e viene ricostruito dallo Stato italiano negli anni ‘30. Il progetto dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale ricalca l’impianto del manicomio riutilizzandone strutture superstiti, ma le stesse fotografie realizzate al momento della riapertura mostrano, al posto dei giardini del primo progetto, la prevalenza di cortili chiusi e recinzioni 1.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, tra i muri che recingono il Parco, c’è perfino la “cortina di ferro”, visto che la frontiera italo-jugoslava passa proprio lungo il limite sud orientale del Parco.
Per anni la vita all’interno della struttura è la stessa di tutti gli Ospedali Psichiatrici e ha ben poco del manicomio “a porte aperte” delle utopie di inizio secolo. Questo fino al 1961, quando Franco Basaglia vince il concorso per la direzione dell'istituto. Il Parco diviene allora il teatro del dirompente avvio di una rivoluzione che si completerà a Trieste e che, con l'introduzione della legge 180, chiuderà l'epoca dei manicomi in Italia.
Paradossalmente proprio l’aver ospitato il difficile avvio di quella riforma comporta per l’Ospedale di Gorizia una damnatio memoriae che lo rende, insieme all'adiacenza al confine, luogo marginale ed escluso. “Lì sono successe brutte cose”, dicono ancora oggi tanti goriziani, riferendosi non si sa se alle condizioni di vita degli internati denunciate da Basaglia al suo arrivo, o agli incidenti durante i permessi di uscita di qualche paziente. Le polemiche conseguenti portano Basaglia a dare le dimissioni e lasciare l’Ospedale, che ritorna nelle condizioni precedenti il suo arrivo. Con l’entrata in vigore della legge 180 del 1978, ha inizio, come per tutti i parchi che ospitavano gli ex OP, una decostruzione che dovrebbe condurre a una nuova stagione di commistione tra destinazioni d’uso sociali, culturali e scientifiche. Così non è, e invece, con la suddivisione della proprietà tra Azienda Socio Sanitaria Isontina e Amministrazione Provinciale, il Parco vede disperdersi gli elementi della propria identità.
La chiarezza dell’impianto è alterata dall’inserimento di nuovi edifici e dall’ampliamento degli esistenti che, in assenza di un progetto complessivo, risultano casuali e disorganici; la forma stessa del Parco è erosa dall’alienazione di una fascia a nord-ovest con successivi interventi di lottizzazione; le ampie aree verdi e il considerevole patrimonio arboreo sono abbandonati all’incuria.
Attualmente l’area sud-est del Parco, di proprietà dell’ Azienda Socio Sanitaria, ospita uffici amministrativi e servizi sanitari (Sert, Servizio Minori, Centro Diurno di Salute Mentale) e le attività di alcune cooperative sociali.
Gli edifici a nord-ovest, di proprietà della Provincia, sono poco utilizzati o completamente in disuso, alcuni non utilizzabili se non dopo interventi di recupero.
La caduta del confine, ora italo-sloveno, a seguito dell’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea e, nel 2007, nell'area Schengen, conferisce potenzialmente al Parco una valenza strategica.
Il nuovo Centro di Salute Mentale, inaugurato nel settembre del 2016, funzionerà in integrazione con i servizi sanitari sloveni come riferimento transfrontaliero per la cura delle persone con disturbi mentali e centro di formazione per gli psichiatri sloveni 2.
Ma tutto il Parco, anche secondo quanto espresso dagli amministratori regionali 3, potrebbe diventare un laboratorio di forme innovative di welfare in uno scenario di collaborazione fra cittadini italiani e sloveni, ospitare servizi bilingui (asilo nido, scuola dell’infanzia, spazi di aggregazione giovanile e di “invecchiamento attivo”) e imprese sociali per l’inclusione di persone fragili, valorizzando le attività dell’associazionismo già presenti per il recupero e la cura delle aree verdi e di ciò che rimane della “colonia agricola” dell’ospedale.
In collaborazione con la Fondazione Basaglia di Venezia, si ipotizza la realizzazione di un percorso informativo sul lavoro svolto a Gorizia da Basaglia, rivolto a visitatori e studenti, e l’organizzazione di un archivio che raccolga e valorizzi il materiale presente nell’ex OP, di interesse non solo psichiatrico, ma anche di valore storico rispetto a una delle poche rivoluzioni, se non l’unica, che in Italia abbia avuto un compimento.
Questo quanto riguarda la programmazione di possibili destinazioni d’uso, ma all’architettura il compito di dare forma alla restituzione di un’identità al Parco come alla sua memoria.
Da due anni il Laboratorio di Progettazione architettonica 3 del Corso di Laurea Magistrale in Architettura a ciclo unico dell’Università di Trieste ha come area di progetto il Parco. Esiti del corso sono stati esposti, insieme a materiali d’archivio, all’interno della mostra “La libertà è terapeutica”, allestita in collaborazione con le cooperative sociali e con il Dipartimento di Salute Mentale 4, e poi all’interno del Parco stesso, in occasione dell’inaugurazione, da parte della Presidente della Regione del nuovo Centro di Salute Mentale 5.
Gli studenti del Laboratorio 6 hanno analizzato lo stato di conservazione di alcuni edifici del Parco e gli interventi necessari a ripristinare condizioni di uso. Hanno poi elaborato un progetto che riguarda il Parco nel suo complesso in relazione alla città e che arriva alla scala del progetto di interni e di allestimento per i percorsi informativi e il centro studi.
Obiettivo del Laboratorio è fare dell’esperienza di studio nel Parco Basaglia qualcosa che vada oltre la consueta lettura di un’area di progetto. Questa normalmente si concentra sulla consistenza materiale dell’esistente, sull’individuazione di funzioni compatibili, subordinatamente ai bisogni espressi dall’utenza. È l’idea di un’architettura che insegue il sociale e che rischia di essere definita dalla contingenza di vincoli tecnici, funzionali, economici declinati al presente o al futuro a breve termine della gestione degli amministratori in carica. L’unico sguardo al passato riguarda, troppo spesso, le valutazioni sulla conservazione o il ripristino di configurazioni più o meno originali dei manufatti esistenti.
Questo modo di procedere all’interno dei laboratori di progettazione, rispecchia abbastanza la condizione contemporanea dell’architettura.
Ma la scuola deve sollecitare negli studenti una carica visionaria e critica rispetto al presente, anche o proprio quando l’architettura praticata tende a perderla. In questo senso l’incontro con il pensiero di Basaglia è illuminante. Il Parco può essere letto come un’inestimabile giacimento culturale di pensiero critico e può assumere un ruolo vero di centralità in una rigenerazione urbana e transfrontaliera solo attingendo a queste sue potenzialità.
Si è proposta agli studenti la lettura di alcuni testi di Basaglia e di testimonianze sul suo lavoro nell’Ospedale, per comprendere i valori che sono le potenze invisibili e intangibili di questo luogo. Sono questi i vincoli a cui si è cercato di fare riferimento nel progetto, non solo a quelli definiti dagli strumenti urbanistici e dai regolamenti edilizi.
Le letture che raccontano il percorso per la riconquista della soggettività di chi se l’è vista negare, ha imposto di ricordare costantemente, nel lavorare al progetto, che il fine dell’architettura è farci abitare nel senso di metterci in condizione di essere noi stessi là dove abitiamo. Questa condizione passa attraverso l’esperienza autentica che facciamo di un luogo. Un progetto che restituisca un’esperienza autentica del Parco come somma di tracce, visibili e invisibili, non può che collocarlo dentro il sistema di tracce e di esperienze più grande che è la città.
Il lavoro è cominciato studiando la cartografia storica di Gorizia dalla sua fondazione 7. Sono stati realizzati modelli delle diverse fasi storiche e dei piani elaborati per la città. Si può osservare così che, prima della sua costruzione nel 1911, il Manicomio e il suo parco compaiono già in un piano del 1905 dell’architetto Antonio Lasciac. L’architetto goriziano, attivo per lo più in Egitto, regala alla sua città un piano di espansione, mai adottato, secondo un modello di città giardino. Il Parco rappresenta una delle poche parti realizzate del piano e sembra rispondere al suo ruolo terapeutico non solo per la ripresa dei modelli viennesi ma per il disegno armoniosamente integrato in quello della città.
Da allora, invece, isolato rispetto alla città che cresce senza più alcun disegno urbano e territoriale, il Parco è il superstite di un idea sconfitta, e quindi escluso. Qualcosa di molto simile a quello che Basaglia ci spiega essere il folle: l’elemento che la società ha escluso perché non è stato al suo gioco 8.
Si comprende allora che identificare la memoria del Parco solo con la sofferenza degli internati, pensando di assolvere al rapporto con questa memoria inserendo, o facendo del Parco stesso, un memoriale del dolore, sia riduttivo rispetto al potenziale di questo luogo.
Il progetto dovrebbe riuscire a confrontarsi criticamente con i valori di libertà e dignità che sostanziano la lotta che da qui parte contro le istituzioni normalizzanti, e farlo attraverso gli strumenti specifici dell’architettura.
Sono stati individuati tre temi: l’identità (dell’architettura e di chi la abita), il limite (nelle accezioni materiali e immateriali), la memoria (delle vicende umane ma anche degli edifici come fabbriche).
Alcune immagini simboliche sono servite a comprendere e sintetizzare il rapporto tra questi temi.
Il primo atto di Basaglia come direttore dell’ospedale, prima dell’eliminazione di elettro-shock, camice di forza, letti di contenzione, reti e grate, è la restituzione dei comodini ai pazienti, a cui ogni effetto personale era requisito al momento del ricovero. Questi piccoli elementi di arredo, architetture in nuce secondo la visione poetica dello spazio di Bachelard, consentono di custodire oggetti e memorie personali, riconoscendo uno spazio, delimitato e protetto, a quell’identità finora negata ai pazienti.
Il Parco insegna l’ambivalenza del limite, che può essere necessario, cercato o imposto. Nel manicomio il confine di ognuno è violato (non solo quella che chiamiamo privacy, ma l’integrità fisica stessa delle persone, spogliate e frugate, sottoposte a ogni tipo di perquisizione) mentre innumerevoli limiti vengono imposti: i letti di contenzione, le grate, i recinti. Anche abbattute queste barriere materiali, altre invisibili continuano a dividere il mondo dei normali da quello dei “matti”.
Ugualmente la frontiera, che per anni ha segnato la divisione del mondo in due parti contrapposte e ha diviso dolorosamente quanto prima faceva parte di un’unica città, è crollata come muro ma ha lasciato ancora da risolvere il tema del confronto tra due identità divenute diverse. Questa ambivalenza del limite manca oggi di una forma che ne esprima la complessità. Abbattuto il muro che cingeva il Parco, il confine è oggi costituito da un’anonima rete metallica che ne delimita il lato sud.
L’ipotesi comune ai progetti elaborati dagli studenti è che il Parco possa essere per la città un modello di forma che attraverso lo sviluppo dei temi di identità, memoria e limite, trasponga la lezione di Basaglia sul valore della soggettività contro la riduzione alla a-problematicità da parte delle istituzioni dominanti. Tra queste c’è il manicomio ma anche tutte quelle istituzioni che impongono l’adattamento a un “perfezionismo tecnico-specialistico” 9 . Interrogarsi su quanto ciò possa riguardare l’Università, la scuola di architettura e l’architettura stessa, significa cogliere la provocazione che Basaglia ha lanciato ben al di là dei limiti della pratica psichiatrica.
Ogni proposta progettuale ha indagato modalità diverse per perseguire questo non facile obiettivo. Si è lavorato sui bordi per restituire al Parco la forma urbana erosa dalla frammentarietà casuale dei suoi nuovi limiti. Due bordi sono stati enfatizzati con delle variazioni di quota: quello dell’ingresso principale, verso la città, e il confine, discontinuità netta in cui siano riconoscibili i varchi di un’apertura consapevole; i bordi verso i nuovi quartieri residenziali (in parte costruiti su aree un tempo di pertinenza dell’ospedale) e verso le zone agricole, sono stati trattati come limiti permeabili che permettono di leggere l’interno del Parco.
Oggetto di analisi è stata la sovrapposizione di tracciati nuovi e antichi, per risolvere l’attuale assenza di gerarchie nei percorsi e fare emergere la stratificazione dei segni del primo progetto (i disegni dei giardini) l’organizzazione funzionale basata sulla classificazione nosologica degli internati (definiti come agitati, criminali, tranquilli e divisi per sesso) del secondo progetto, e nuovi segni, identificativi del nuovo, possibile, ruolo del Parco.
La presenza dell’acqua, per cui l’area fu scelta in origine, disegna il nuovo sistema di giardini per poi diramarsi in canali d’irrigazione degli orti comunitari, collocati dove un tempo c’era la colonia agricola in cui lavoravano gli internati in condizioni di farlo. La torre dell’acqua, unico manufatto che per altezza segnala il Parco anche a distanza, è stato oggetto di operazioni di trasformazione, colonizzazione, iterazione, individuato comunque come un forte elemento di riconoscibilità.
Per quanto riguarda il lavoro sugli interni, si è posta attenzione in particolare ai “camerini di contenzione” ancora presenti, intatti, nel Padiglione Agitate e Criminali. Queste celle di isolamento (emblema del limite imposto) sono state trasformate, attraverso l’inserimento di un guscio in legno che si rifà agli studioli rinascimentali, in luoghi per coltivare la solitudine e la ricerca di sé (dentro limiti scelti), fuori dal bisogno di uniformarsi all’idea di normalità e produttività imposte dalla società.
Questo lavoro sul Parco, in collaborazione con gli operatori delle imprese sociali coinvolte nella sua rigenerazione e con psicologi e psichiatri del Centro di Salute Mentale, a volte presenti in aula come ideali committenti e come guide per avventurarsi in questioni che esulano lo specifico disciplinare dell’architettura, è ancora in corso.
Per un bilancio sugli esiti bisogna attendere, ma l’impressione è che da questo luogo di memoria di una battaglia civile per la dignità di chi non è pacificato con il mondo e cerca se stesso in un modo anche problematico, venga lanciata all’architettura la sfida a tornare ad essere pratica critica capace di indicare possibilità e necessità anche contro il parere delle maggioranze.10

Note
1L’ospedale psichiatrico provinciale di Gorizia (ristampa dell’edizione originale , Tipografia sociale 1933), Grafica goriziana, Gorizia 1996,
2 In Slovenia non esiste una legge analoga alla 180 italiana e il processo di deistuzionalizzazione della cura delle persone con disturbo mentale è ancora in corso.
3 Comunicato del 23.07.14 della Regione Friuli Venezia Giulia. http://www.regione.fvg.it/rafvg/comunicati/comunicato.act?dir=/rafvg/cms/RAFVG/notiziedallagiunta&nm=20140723183542003
4 La mostra “La libertà è terapeutica” è stata realizzata presso il Trgovski Dom di Gorizia il 19-22 maggio 2016, in occasione di “èStoria”, manifestazione internazionale di storia che si svolge ogni anno a Gorizia.
5 Inaugurazione del Nuovo Centro di Salute Mentale, Gorizia 30 settembre 2016.
6 Il Laboratorio comprende il corso di Composizione architettonica e urbana e il corso di Architettura degli interni, tenuti dalla prof.ssa Giuseppina Scavuzzo, e il corso di Restauro, tenuto dal prof. Sergio Pratali Maffei.
7 Un prezioso testo di riferimento in questo senso è A. Marin, Gorizia. Piani e progetti per una città di confine, Ed. Casamassima Libri, Udine 2007.
8 F. Basaglia, a cura di, L’istituzione negata, Dalai editore, Milano 2010, pag. 144.
9 F. Basaglia, a cura di, L’istituzione negata, op. cit. pag. 116
10 "Gli autentici architetti lavorano a partire da una critica alle contraddizioni del presente, alla ricerca di frammenti di verità (verità non assoluta ma storica) su cui costruire un nuovo possibile e necessario: anche proprio contro il parere delle maggioranze". V. Gregotti, Architettura, giustizia più libertà, in “Corriere della sera”, pag. 33, 4 settembre 2016.

Giuseppina Scavuzzo
Architetto, si laurea con lode all’Università Iuav di Venezia, borsista della Fondation Le Corbusier di Parigi nel 2004, è Dottore di Ricerca in Composizione architettonica e urbana presso l’Università Iuav di Venezia conseguendo il titolo nel 2005. Attualmente è Ricercatrice in Composizione architettonica e urbana presso il Dipartimento di Ingegneria e Architettura dell’Università di Trieste e redattrice di FAMagazine.                                  Tra le sue pubblicazioni: La spada di Corbu (in Architettura. I pregiudicati, Mimesis, Milano-Udine 2016); Il caffè: interno urbano con figure (in Uno spazio del caffè, EUT, Trieste 2016); John Hejduk o la passione di imparare (in Soundings: John Hejduk, Aión, Firenze 2015).