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Festival dell'architettura

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Fernando Espuelas

Architettura dell'istante

Scala. Padiglione solare. Alison e Peter Smithson. Fotografía di Peter Smthson

Scala. Padiglione solare. Alison e Peter Smithson. Fotografía di Peter Smthson

Abstract
L’articolo si propone di liberare l’architettura dalla Techné e dalla Hermeneia e permettere a quest’ultima di essere solo fonte di stimoli per la percezione. E’, in definitiva, la rivendicazione dell'architettura come evento e del corpo come il territorio in cui l’architettura accade.

 

Chiamatemi Ismaele, esorta il narratore di Moby Dick. E così facendo, annulla la distanza tra narratore e lettore per lasciare intrappolato quest’ultimo in una irresistibile complicità. Allo stesso modo, il tema della ricerca impossibile in architettura invita ad annullare la distanza che la teoria, questo sguardo inquisitorio del theorein greco, pretende per adottare altresì la più pura contingenza. Come in un carnevale rovesciato, noi ci sentiamo invitati a toglierci la maschera accademica, a dimenticare la critica e la storia e a percepire, percepire l’architettura con l’intensità di un bambino o di un innamorato, senza mediazioni, senza trascendenza.

Lasciamo riposare Hermes quale trafficante di significati, non gli chiederemo più messaggi degli dei. Diamo almeno oggi all’architettura l’opportunità di mostrarsi senza strani vestiti, senza storia, innocente. Avviciniamoci ad essa con curiosità primordiale, quasi infantile. Cerchiamola con il corpo.

L’architettura accade nel corpo, si dissolve in esso.  Come dice Juan Navarro Baldeweg, si può intendere come una forma di body-art. Nel mio corpo hanno avuto luogo il Panteon di Roma e le chiese di Lewerentz, il pozzo di San Patrizio e le torri di  San Gimignano, la Villa Mairea e il palazzo di Katsura. L’architettura si “inscrive” nel corpo, si tatua su di esso.

Un racconto è un codice cifrato, scritto in maniera permanente nell’oggetto-libro che lo contiene, ma solo durante la lettura esso si attiva nella mente del lettore. Solamente aprendo il libro di Moby Dick e cominciando la sua lettura ci appaiono la voce di Ismaele, i mari sconfinati, la  ferocia della balena, l’odio del capitano Achab. Allo stesso modo, l’architettura è latente nella materia costruita ed appare solo quando la si osserva e la si ascolta, quando si chiede di lei, quando la si interroga. L’architettura si risveglia nel momento in cui qualcuno le domanda della luce, delle distanze, dei colori, o si interessa della rugosità della sua superficie, della sua struttura.

Inoltre non bisogna uscire a cercarla. L’architettura accade, ti assale o ti accompagna. Forse non si distingue da te. Parlo di quei momenti speciali in cui non si può distinguere colui che percepisce da ciò che è percepito. Questa è l’esperienza che cerca l'haiku, l’unità tra il soggetto, l’oggetto e l’atto, e che il buddismo zen chiama satori.

Ciò che vedi è ciò che vedi. Accettiamo come puro stupore o puro benessere le sensazioni che l’architettura ci offre, niente di più, senza bisogno di relazioni simboliche da interpretare.

Chiamiamo “architettura” quel fenomeno intermittente che si verifica in particolari momenti, durante il resto del tempo esiste solo l’inerte materia edificata. Così intesa, l’architettura è un fenomeno “istantaneo”, qualcosa che “accade”.

Solo nell’attimo si fa eterna. Gli avverbi di tempo: allora, ieri, domani, dopo, portano con sé il germe della rovina. Espulsa la durata e i suoi inganni narcotizzanti, salutiamo l’”architettura istantanea”, che appare come una festa, che si dissolve nell’istante della percezione, come i lampi dei fuochi d'artificio.

Il grande architetto Josep Llinás dice che l’architettura è ciò che segue la costruzione. Per lui, architettura è riposo mentre la costruzione è lavoro. L’architettura è la festa, la celebrazione, ciò che affiora quando il lavoro termina. Essa ci fornisce i piaceri elementari, ciò che si ottiene senza sforzi, senza nemmeno chiederlo, i piaceri generosi e appassionati della festa.

Allo stesso modo l’architettura “si impregna” delle storie della vita, i suoi muri non sono mai  bianchi. Infatti, l’architettura senza chi la abita non è niente. Adorno dice che l’arte è in relazione con l'altro da sè. L’architettura, come l’arte , si realizza solo nell’altro. E l’altro, nel suo caso, è l’abitante. Allo stesso modo, per chi la abita l’architettura diventa il suo alter ego. La casa è una sorta di “io” sdoppiato. L’architettura, impregnata dell’abitudine, si ritira, diventa il volume di un’ombra. Si trova dietro di noi, silenziosa, vigile, desiderosa. L’architettura, la casa, è fedele solo al suo abitante e tuttavia per lui essa è invisibile.

Noi facciamo la casa e la casa a sua volta fa noi. La casa segue un proprio statuto nell’assemblea degli esseri che condividono uno stesso luogo. L’abitante stabilisce un patto con la sua casa in termini di privacy e di immunità. La casa lo aspetta, si avvicina quando medita e si espande quando riceve. Nell’incoscienza la casa si ritira, nello sguardo si esalta. Quando si lascia una casa, si conserva sempre qualcosa dei suoi abitanti.

In My Blueberry Nights, Il film di Wong Kar-Wai,  Lizzy (Norah Jones) si avvicina ogni notte alla sua vecchia casa per guardare, con inquietudine e sofferenza, l’unica luce accesa dell’edificio dove una volta fu felice e dove forse lui, ecco la fitta di dolore, continua ad esserlo con un’altra. In Wakefield, il racconto di Nathaniel Hawthorne, un marito, con la scusa di un   viaggio di affari, lascia la sua casa di Londra e scompare per vent'anni. Tuttavia, non è scappato in un posto lontano bensì si è nascosto nello stesso quartiere e ogni giorno si avvicina alla sua casa. Lì, furtivo nell’ombra, osserva l’interno di quella che fu la sua casa e sua moglie dentro di lei.

Le case abbandonate producono malinconia. Giorgio Agamben, a proposito della malinconia amorosa, dice che questa “non sarebbe tanto frutto di un’azione regressiva dovuta alla perdita dell’oggetto dell’amore, bensì la capacità illusoria di far apparire ciò che si è perso come un oggetto di cui non ci si può appropriare”. La malinconia, magistralmente rappresentata da Dürer nell’incisione che porta il nome Melencolia I, è il sentimento prodotto dalla casa vuota, quella che ha perso il suo abitante. In tale situazione, la casa o il suo osservatore generano quindi un sostituto del suo abitante, che è il fantasma.

La casa è una realizzazione unitaria nella quale si condensano i tratti e le tracce dell’abitare. La casa è un contenitore di “aria condizionata”, ovverosia, un luogo in cui si condivide l’aria che si respira e le abitudini della convivenza. La casa, tutta l’architettura, è un'eccezione per l’atmosfera, un segno per gli altri e un riparo per se stessi. In un racconto di Scott Fitzgerald si stabilisce che la dimensione  più adatta per una casa è quella in cui la voce della madre la raggiunge  fino all'ultimo angolo.

Dante nel Purgatorio della Commedia racconta del sapore amaro del pane degli altri e di quanto ripida risulti la scala in una casa sconosciuta. Il protagonista di Alla ricerca del tempo perduto prova un terrore inspiegabile quando rimane solo nella lussuosa camera del Gran Hotel de Balbec. E tuttavia, Hölderlin trova sollievo nell’abitazione che il falegname Zimmermann gli offre in quella torre lungo il Neckar.

Guardare l’orizzonte da una casa è come guardare da pari a pari, perché sentiamo che alle nostre spalle abbiamo l’architettura. L’architettura è un fatto latente che rafforza la frontalità evolutiva dell’essere umano, perché ci protegge la schiena che non dispone della visione (“ci copre le spalle”). L’architettura, quindi, non richiede attenzione, è pura latenza, volume di un’ombra. Con l’architettura e la casa, l’essere umano ha messo in gioco un mondo complesso e mutevole che si contrappone alla Natura. L’artificio si è costituito come contropotere della Physis. Il verticale, l’eroe di  Barnett Newman, si erge contro l'orizzonte.

Oggi noi possiamo permetterci di dimenticare la Cultura, vagare con la mente vuota. Solo oggi resteremo innocenti, anche se sappiamo bene che l'architettura, intesa come l’interno contrapposto al grande esterno della Natura,  è una solida struttura simbolica che ci protegge da vecchie minacce, non meno inquietanti del freddo o del rumore.

L’architettura ti accompagna, sta con te, discreta, nell’ombra. Oggi “sentila” senza indugi, domani forse potrai chiedere del suo nome e della sua storia, del suo autore e dei simboli di cui è stata investita. Dice una vecchia canzone di Stephen Stills: “Love one you´re with”. Ama e senti l’architettura che ti accompagna, sia essa un'umile casa di pescatori o l’Empire State Building.

 

Professore Ordinario di Progettazione architettonica presso la Escuela de Arquitectura de la Universidad Europea de Madrid, che ha diretto dal 2003 al 2006. È membro del Gruppo di Ricerca [Inter]sección Filosofía- Arquitectura ed editore della rivista REIA (Revista Europea de Investigación en Arquitectura).
È autore dei volumi Il vuoto. Riflessioni sullo spazio in architettura (ARQUIA, 1999) e Madre Materia (LAMPREAVE, 2009), in cui combina argomenti di architettura, arte e filosofia. Entrambi i volumi sono editi in Italia da Marinotti.