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Manuela Raitano

Dall'Architettura della Città alle architetture per le città

 

Costa-Fierros Arquitectos, Parque de la Mùsica, Siviglia, 2007-2011. © Pablo Díaz-Fierros - ZOOM

Costa-Fierros Arquitectos, Parque de la Mùsica, Siviglia, 2007-2011. © Pablo Díaz-Fierros

 

Dall’Architettura della Città alle architetture per le città la differenza è sostanziale. Si tratta di cominciare a pensare la città non più come luogo ideale, ma come scena reale delle azioni quotidiane: una vera e propria machine a co-habitèr.

Il progetto urbano, in Italia, ha spesso abbracciato la prima visione, avvicinandosi solo in tempi più recenti rispetto ad altri contesti europei alla seconda concezione. È lecito chiedersi quali siano state le ragioni strutturali che hanno portato a questo orientamento. Alcune possono essere riscontrate nella natura stessa delle nostre città: nel contesto italiano la scala degli insediamenti raramente è Large, più spesso è Medium-small, mentre la cosiddetta XL size propria delle megalopoli asiatiche e sudamericane costituisce una rara opportunità nella pratica del mestiere dell’architetto alle nostre latitudini. All’interno delle aree urbanizzate si rende, inoltre, sempre riconoscibile un inner core, una sorta di nucleo duro costituito dal tessuto storico/consolidato/musealizzato, che rappresenta (insieme alla squadra di calcio e alla cucina locale) il patrimonio genetico identitario che distingue le comunità urbane fra loro. Ora, considerato che nella nostra disciplina le formulazioni teoriche discendono spesso -a parere di chi scrive- dalle concrete opportunità di progetto, ne consegue che il dato ‘dimensionale’, unito a questa forte caratterizzazione identitaria, ha avuto un peso determinante nell’orientare gli studi urbani in una precisa direzione di ricerca.

Il sillogismo era chiaro: se le città italiane hanno una scala che ancora ne permette una lettura d’insieme, allora sarà possibile concepire il Progetto Urbano come il progetto di un insieme, dotato di senso e identità univoca, in cui affidare all’Architettura Civica il compito di rappresentare, anzi meglio -di confermare- l’identità storica della città. Siamo all’opposto –comprensibilmente – dell’indeterminatezza generica delle megalopoli descritte da Koolhaas. Ma quest’opposto ha prodotto un paradosso: la conservazione in vitro delle identità passate ha trasformato le principali città italiane in ‘cartoline’ di se stesse, con un effetto pop non troppo distante da quello delle generic cities. Da tutto ciò, la città come ‘organismo abitato’ è stata tagliata fuori nella ricerca come nella programmazione urbanistica, e la pochezza delle politiche messe in campo dal Piano Casa ne costituisce la sconsolante conferma.

A questo punto, di fronte ai fallimenti della politica, all’indeterminatezza delle Istituzioni e al sempre più netto ripiegarsi del cittadino in una dimensione maggiormente privata dell’esistenza (cui fa riscontro la capacità del singolo di instaurare contatti virtuali che travalicano la condizione locale) l’idea di un’Architettura Rappresentativa non è più sostenibile. Di fronte alla parcellizzazione di senso e di figura dell’Anticittà teorizzata da Boeri, nulla è così prevalente da dover essere rappresentato, reso centrale per significato e ruolo. Insomma, qui non si tratta solo di dichiarare ineffettuale il modello teorico rossiano, mutuato dal piano sistino, basato sulla dualità tra “tessuto” ed “emergenza”, ché questo è ormai un pensiero piuttosto condiviso. Si tratta piuttosto di denunciare che le politiche urbane delle principali città italiane non si sono mai mosse da lì. Stanno a dimostrarlo i rilevamenti ISTAT che fotografano uno sbilanciamento di ben oltre il 50% degli investimenti pubblici destinato a progetti speciali. Ma stanno a dimostrarlo anche i pur lodevoli MAXXI, le pur necessarie stazioni AV, le meno necessarie enclaves di lusso dei city life buildings, per tacere degli inutili sprechi quali il mastodontico scheletro di Calatrava progettato per i mondiali di nuoto e abbandonato ai margini del G.R.A. Tutte “emergenze”, queste ultime, cui non è stato neppure fatto un serio tentativo di affiancare politiche diffuse di recupero, demolizione, rigenerazione dei tessuti urbani; non un serio tentativo, in sintesi, di lavorare sulla qualità media della città delle case, degli uffici, delle infrastrutture, degli spazi aperti.

Un altro dei PIIGS, come si dice in gergo economico, ha molto da insegnarci. La Spagna è paese in crisi profonda, eppure la rete di architetture utili che ha costruito nell’ultimo decennio (parchi, sistemazioni di strade e tangenziali, housing sociale, scuole, asili), architetture spesso realizzate in economia di materiali affidandosi a una lingua architettonica che ha distillato con raffinatezza alcuni elementi ricorsivi molto semplici, reggerà probabilmente l’urto di un decennio in cui le risorse per i nuovi investimenti scarseggeranno. Qui, invece, il restringersi degli investimenti dovuto alla spending review poggerà sul nulla di fatto dei decenni passati.

È dunque urgente da parte nostra chiedere nuovi obiettivi programmatici alla politica, nel quadro di una chiara impostazione antiretorica del progetto urbano. Ma quest’ultima dipende esclusivamente da noi, dalle nostre ricerche, dall’insegnamento delle nostre Scuole, che dovranno rendere centrali alcuni temi:

1_l’housing come servizio urbano qualificato. Come Unitè rimodellate, le residenze dovranno prevedere un mix funzionale in grado di rispondere a una doppia scala di bisogni, quella dell’abitante e quella del quartiere circostante, superando l’idea del piano dei servizi dedicato ai soli residenti. In questo modo la residenza può contribuire alla vitalità di un quartiere, all’opposto di quella dualità tessuto/emergenza di cui abbiamo già detto.

2_ l’infrastruttura come materiale dell’architettura. Libera finalmente dall’esclusivo dominio del calcolo ingegneristico, l’infrastruttura dovrà essere considerata a tutti gli effetti materiale di riflessione del progetto attraverso il lavoro sui margini, sulle sezioni, sulle intersezioni, diventando un’occasione formidabile di fruizione cinetica delle città.

3_ Gli spazi pubblici come rete multilivello. I piccoli, diffusi spazi interstiziali, se interconnessi a formare una rete che coinvolge anche i piani terra delle fabbriche urbane, permetteranno una fruizione friendly user delle città; un intreccio di percorsi ciclo/pedonali senza interruzioni darà ad ogni cittadino, a livello di piccola/media distanza, le stesse opportunità in termini di mobilità e di accessibilità.


Manuela Raitano, Ricercatore presso la Facoltà di Architettura ‘Sapienza’ Università di Roma, insegna Progettazione Architettonica e Urbana