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Francesco Zuddas

Pretese di equivalenza

De Carlo, Woods e il mat-building

Giancarlo de Carlo et al., Piano di Ristrutturazione dell’Università di Pavia (1971-76). Schema generale.

Giancarlo de Carlo et al., Piano di Ristrutturazione dell’Università di Pavia (1971-76). Schema generale.

Abstract [1]
Tra gli anni ’60 e ’70 l’università è attraversata da un clima d’irrequietudine che sfocia nel suo riversamento sulla città attraverso le proteste studentesche. L’incontro tra città e università è fatto propria dalla cultura architettonica e trasformato in una delle più usate e abusate metafore per legittimare un’ipotetica svolta epistemologica dal dogma funzionalista. Considerando il lavoro progettuale e intellettuale di Shadrach Woods e Giancarlo De Carlo sul tema del ripensamento dell’università, questo scritto discute due approcci apparentemente simili nelle intenzioni – al punto di essere raggruppati sotto la stessa etichetta del “mat-building” - ma profondamente differenti nel modo di definire i modi in cui il progetto di architettura possa rispondere alla metafora università=città. 

Testo
“Può una università diventare un'opportunità di ampia interazione culturale, che implica disordine creativo, se il suo modello è totalmente e perennemente condizionato dalla camicia di forza di una griglia materializzata? [...]Non dovrebbe una griglia essere solo una disciplina intellettuale che dovrebbe dissolvere, e consentire una contro-mossa di contraddizione durante il processo di generazione dello spazio e delle forme?” 
[Giancarlo De Carlo] [2] [Fig.1] 


“[...] La griglia intellettuale è tutta nella tua mente. Ma la gente (e i tubi) hanno bisogno di collegamenti diretti, invece di tanta arte indeterminata,
Nella quale il costruire deve chiaramente essere l'ultima parte".

[Shadrach Woods] [3] [Fig.2] 


Per circa un decennio, tra gli anni ‘60 e i ‘70 dello scorso secolo, l’università diventa il luogo privilegiato per esprimere desideri e frustrazioni. L’avanzare del conflitto ideologico della Guerra Fredda si spende sempre più sul lato di un progresso tecnologico che necessita di una forte revisione dei rapporti tra industria ed educazione avanzata. Se a questo si unisce il fatto che, negli anni ’60, la generazione del baby boom raggiunge l’età di accesso all’istruzione accademica, appare evidente come l’università diventi lo strumento principale per controllare e progettare una società in mutamento. Si tratta di un progetto che dipende in maniera sostanziale dalla formulazione di un pensiero sui modi in cui l’università debba configurarsi nello spazio. Una contingenza, questa, sicuramente favorevole per l’architettura, che si trova chiamata in causa tra gli attori principali del ripensamento dell’idea di università. [4]

Il nuovo ruolo centrale dell’università è catturato efficacemente da Joseph Rykwert che, nel 1968, la definisce come archetipo istituzionale del proprio tempo - alla stregua dei templi per la civiltà greca, delle terme per i romani, e delle cattedrali per il medioevo. [5] Per gli architetti, ciò significa leggere l’istituzione accademica come un campo di sperimentazione di forme e principi insediativi capaci di assurgere a modello per una più vasta ristrutturazione di ampi territori urbanizzati. In altri termini, nel progetto dell’università s’individua la possibilità di mettere in luce la crisi di una società proiettata verso la totale urbanizzazione.    

E’ forse un caso che la crisi dell’università d’élite si consumi proprio nei decenni in cui si formula la promessa di una nuova stagione per l’architettura. Per alcuni architetti si tratta, probabilmente, di una fortunata coincidenza. Infatti, proprio sul tema dell’università viene spesa gran parte dell’eloquenza retorica di una generazione internazionale di architetti che proclama come propria missione il superamento del dogma funzionalista. L’immagine più eloquente di questa missione rimane la foto dei membri fondatori del Team X, in posa col certificato di morte dei CIAM nel 1959 a Otterlo. Ma la promessa di un cambio generazionale non è priva di demagogia. Al contrario, è proprio sul piano dei grandi slogan che i giovani sfidano i vecchi – dalla riscoperta e il “learning from” dagli habitat tradizionali, alla riesumazione della strada in seguito all’uccisione corbusieriana. 

Uno di questi slogan postula l’identità tra università e città. E’ noto che i primi tangibili segni di protesta negli atenei avvengono intorno al 1963. [6] Dai sit-in a Berkeley alle prime occupazioni delle Facoltà di Architettura in Italia,[7] il malcontento nei confronti della natura paternalistica di un’università ancora troppo discriminante nel definire chi abbia diritto ad accedervi, si somma a una critica verso la connivenza di potere tra governi nazionali e governi accademici. L’università siede tra i principali imputati in un processo all’oppressione sociale da parte dei poteri alti, così che pensare a una nuova idea di università significa insidiare la stabilità di potere dell’istituzione. E’ cioè necessario minare il controllo territoriale dell’istituzione accademica, col fine ultimo di spostare tale controllo nelle mani di chi dell’università dovrebbe fruire come servizio pubblicamente accessibile. 

Il riversarsi dell’università sulla strada attraverso manifestazioni di protesta è una metafora particolarmente appetibile per gli architetti della generazione post-Movimento Moderno, al punto da essere immediatamente strumentalizzata per fini di più ampio respiro: nell’università si intravede la possibilità di attuare una svolta epistemologica per il discorso architettonico e urbanistico. L’identità tra città e università diventa così una delle più usate e abusate figure retoriche messe in campo per legittimare un cambio di direzione nel modo di pensare lo spazio abitato che promette di lasciarsi dietro lo sguardo aereo modernista, per riportare gli occhi dell’architetto sul piano “umano”: il piano dell’uomo della strada. 

In questo scritto mi propongo di discutere due interpretazioni della metafora città=università (un’identità intesa in senso biunivoco) che, seppur nate da un comune sostrato ideologico, declinano in maniera molto diversa il modo in cui l’architettura possa fare propria, da un punto di vista operativo, tale metafora. Il primo modo postula la possibilità di un diagramma interno: un grande edificio capace di fondere città e università. Il secondo, suggerisce che solo nel campo urbano più vasto, e senza una configurazione definita una volta per tutte, possa aver luogo una tale fusione. La prima risposta è offerta dall’architetto americano Shadrach Woods, la seconda da Giancarlo De Carlo.

Si è detto che predicare l’identità tra università e città diventa, all’inizio degli anni ’60, strumentale a riportare l’attenzione sul punto di vista dell’uomo della strada. Proprio “The man in the street” è il titolo scelto da Shadrach Woods per una serie di lezioni tenute nel 1966, un titolo che riassume il pensiero di un’intera generazione di architetti. [8] Lo stesso Woods è la mente principale dietro quella che la storia dell’architettura presenta come una magistrale interpretazione del ruolo dell’università come luogo di sperimentazione di nuove forme urbane e, più in generale, di un’idea di città: il progetto per la Libera Università di Berlino, elaborato dallo studio Candilis, Josic & Woods nel 1962-63 - quando, cioè, iniziava a palesarsi la protesta studentesca. [9] 

La prima ufficializzazione del salto di paradigma offerto dal progetto per Berlino avviene attraverso la penna di Alison Smithson [Fig.3], partecipe insieme allo stesso Woods del tentativo di rinnovamento nella cultura architettonica perseguito dal Team X. Nel 1974, sulle pagine di Architectural Design, l’architetto inglese afferma che il completamento di una prima porzione dell’edificio a Berlino segna un fondamentale momento di coagulazione di una traiettoria architettonica che si è impegnata a leggere l’ambiente costruito come processo, piuttosto che come prodotto. Un fenomeno al quale manca solo un nome ufficiale, puntualmente assegnato dalla Smithson: mat-building. [10]

All’inizio del nuovo millennio, sull’onda di una crescente attenzione per il landscape urbanism che, in parallelo ma in alternativa alla produzione di oggetti di architettura “iconica”, postula il progetto alla grande scala come costruzione di “campi” (fields) di forze, il mat-building ha trovato nuovi seguaci. Eric Mumford ha parlato di “mat approach”, definendolo come lo spostamento di attenzione dalla creazione di forme concluse alla “organizzazione provvisoria di campi di attività urbana” in continuo mutamento. [11] Richiamando l’articolo della Smithson, Stan Allen ha dapprima elencato le mosse architettoniche comuni al mat-building – “una sezione compressa e densa, attivata da rampe e vuoti a doppia altezza; la capacità unificante di una grande copertura; una strategia d’insediamento che permette alla città di fluire attraverso il progetto; la delicata combinazione di ripetizione e variazione” – per poi notare, quasi confutando quella stessa lettura architettonica del fenomeno, che “il senso di accumulazione e cambiamento [proprio del mat-building] si esprime in maniera più efficace in un assemblage urbanistico.” [12]

E’ nelle affermazioni di Mumford e Allen che si riscontra la contraddizione insita nella nozione stessa di mat-building, posto in maniera incerta tra lo status di sostantivo e quello di verbo, come già osservato da Timothy Hyde. [13] Da un lato, si può leggere il mat-building come un oggetto specifico che, per quanto grandi siano le sue dimensioni e complessa la sua organizzazione interna, permane nello stato di edificio concluso. Dall’altro, lo si può intendere come un modo di progettare, un diagramma organizzativo che non può rimanere intrappolato tra le mura di un singolo edificio, ma mira a stabilire dei principi insediativi di più vasta portata. 

Quest’ambiguità di definizione è tanto più apparente se si confronta l’università di Berlino e il portato teorico-retorico alla sua base (e di una sua progenie, prodotta all’interno dello stesso gruppo Candilis, Josic & Woods) con il lavoro intellettuale e progettuale a cavallo tra pianificazione dell’università e pianificazione urbanistica di un altro membro del Team X: Giancarlo De Carlo. Un lavoro, quello di De Carlo, che passa attraverso l’osservazione delle proteste studentesche degli anni ’60, la pubblicazione di alcuni testi fondamentali sul ripensamento del senso dell’istituzione scolastica e universitaria, [14] e una triade di progetti: Urbino, Dublino e Pavia. Una rilettura delle risposte progettuali date da De Carlo e Woods appare tanto più rilevante oggi, quando la “crisi” dell’università continua a essere sulla bocca di tutti - ma, sembrerebbe, sempre meno su quella degli architetti -, e quando la metafora città=università (o città=campus) sembra essere tornata di moda in tutta la sua forza demagogica. [15]

Per comprendere congruenze e divergenze rispetto a un’idea d’identificazione tra università e città da parte di Woods e di De Carlo, viene in aiuto la loro contemporanea partecipazione in due diverse occasioni: il concorso di progettazione per lo University College di Dublino nel 1963, in cui entrambi, senza vincere, presentarono un’interpretazione di mat-building; e la pubblicazione di due saggi sul ripensamento dell’istituzione universitaria apparsi sulla Harvard Educational Review nel 1969 – “Why/How to build school buildings” di De Carlo e “The Education Bazaar” di Woods. [16]

I punti comuni tra i due architetti sono molti, tanto da poter affermare una corrispondenza della tesi generale: l’educazione – inclusa quella accademica - non può risolversi totalmente nello spazio istituzionale dell’università. Piuttosto, essa va intesa come una derivata dell’esperienza. Necessariamente, continua la tesi, un’istituzione scolastica limita – pena la propria dissoluzione – le possibilità di fare esperienze che non siano finalizzate agli interessi dell’istituzione stessa. Solo quando le istituzioni sono “interrotte” si può raggiungere “l’esperienza totale”. Lo afferma De Carlo in “La Piramide Rovesciata”, saggio nato dall’osservazione delle lotte studentesche tra il 1963 e il ’68, quando cioè l’università si riversa “sulla strada”. [17] In queste parole risuonano forti i moniti di John Dewey e Ivan Illich. Il primo aveva predicato la coincidenza di educazione ed esperienza, mentre il secondo si era spinto a ipotizzare il superamento della stessa idea di istituzione scolastica. [18]

L’intento comune di Illich, De Carlo e Woods è proprio la definizione delle possibilità per raggiungere tale superamento. Consapevoli dell’impossibilità di un cambiamento repentino, l’unica strategia possibile è quella di stabilire le condizioni per l’emergere di vie alternative all’acquisizione di conoscenza. Scardinare l’università dalla propria condizione feudale è un obiettivo principale. Tuttavia, la convergenza delle tesi dei due architetti dà luogo a due approcci progettuali per molti versi opposti.

Va innanzitutto osservata la differente natura dei due citati saggi [Fig.4] del 1969. Nel caso di Woods, The Education Bazaar può essere considerato un manifesto retroattivo. Qui, l’architetto americano coglie l’opportunità per articolare in forma scritta le tesi proposte con il progetto per l’università di Berlino e con quello, di un anno successivo, per l’università di Dublino. Non è un caso che le illustrazioni scelte a corredo del testo siano i diagrammi concettuali prodotti per Berlino insieme a uno stralcio di pianta e una prospettiva della proposta per Dublino. Di contro, il saggio di De Carlo è un manifesto “a priori”, in attesa di un progetto. Ciò dà ragione della scelta di illustrarlo con sole immagini tratte dalle proteste studentesche a Milano, piuttosto che ricorrere a disegni di architettura. 

Sarebbe sbagliato, però, affermare che De Carlo abbia aspettato l’indomani del ’68 per agire “da architetto”, ovvero con un progetto. L’architetto genovese, infatti, è impegnato sul fronte della “Pianificazione e disegno dell’università” (per citare un libro da lui curato e pubblicato nel 1968) da circa un decennio. Tuttavia, vi è una fondamentale differenza tra l’operato concettuale di De Carlo e quello di Woods. Il secondo ha messo a punto un dispositivo architettonico che, dapprima creato per rivitalizzare il centro urbano di Francoforte (nel 1961) trova terreno fertile nell’ambito dello spazio universitario. A Berlino, Woods perfeziona il prototipo, così che Dublino può esserne una reiterazione pressoché fedele. Entrambi i progetti, infatti, compaiono sempre nelle note manoscritte di Woods accompagnati dal motto “University as City” [Fig.5], volutamente contrapposto a “University in City”. [19]

In De Carlo non si può individuare l’equivalente di un prototipo. Così, l’apparente possibilità di applicare il nome di mat-building indistintamente ai progetti di De Carlo e di Woods per Dublino perde presto di significato. [20] Osservando i due progetti, entrambi mostrano di rispondere ai criteri riassunti da Stan Allen, ed entrambi possono quindi a pieno titolo far parte della genealogia tracciata da Alison Smithson. Le differenze, tuttavia, sono più importanti delle congruenze. 

La più evidente divergenza si trova nella definizione dei limiti costruiti dei due progetti. Riproponendo quanto fatto a Berlino un anno prima, Woods definisce un limite chiaro: un rettangolo in forte opposizione alla complessità dello spazio interno. Il progetto di Woods è nella sostanza un progetto di “interno”, atto cioè a ridefinire dal di dentro l’idea di università come un continuo rimescolamento di componenti. E’ la letterale traduzione spaziale di un’idea che, negli anni ’60, sta emergendo come nuovo orizzonte della creazione di conoscenza: la multi-disciplinarità. Si tratta, cioè, della convinzione che l’innovazione non avvenga mai all’interno del confine protetto e certo di una singola disciplina ma sempre a cavallo di più domini di studio. 

Anche il progetto di De Carlo per Dublino [Fig.6] parte dalla volontà di scardinare la monoculturalità disciplinare. Similarmente, anch’esso sfrutta una griglia modulare per l’organizzazione spaziale di un programma universitario scisso nelle sue componenti elementari e sparso per il sito a disposizione. Tuttavia, mentre per Woods la griglia si dichiarava esplicitamente, De Carlo la fa scomparire in un insediamento dai limiti incerti. Le strade interiori di Woods, lineare materializzazione della griglia ortogonale che distribuisce il programma mutevole dell’università, si contrappongono a un diagramma ad albero in cui l’unico elemento certo è la spina centrale dalla quale si dipartono spazi di livelli di specializzazione variabile. E’ proprio sull’uso letterale e costrittivo della griglia che De Carlo muove la principale critica all’amico Woods, il quale risponde “la griglia intellettuale è tutta nella tua mente; la gente (e gli impianti) hanno bisogno di vie dirette”. [21]

Se è vero che lo stesso livello di retorica – l’idea dell’indefinito, del mutevole – è presente in entrambi i progetti, la differenza nel trattamento del limite costruito e nell’uso della griglia come dispositivo progettuale è fondamentale per comprendere la divergenza tra due approcci alla metafora università=città.

Per Woods, la comprensione dell’università come organismo dotato di complessità urbana si traduce in un grande dispositivo [Fig.7] che, una volta definiti in maniera inequivocabile i propri confini, promette infinite possibilità di ri-combinazioni sociali grazie alla complessità della sua organizzazione interna. Non è un caso, dunque, che Woods cambi il titolo del suo saggio del 1969 da “The educational super mart” (titolo che compare in una bozza manoscritta [22]) a “The Education Bazaar”, trovando il proprio riferimento nella figura del bazaar arabo, una grande macchina architettonica dal chiaro limite esterno e dai labirintici interni. 

L’università-città di Woods può funzionare solo se intesa in termini di “rimedio” nei confronti di una specifica condizione urbana. O, più propriamente, suburbana. Come osservato da Alexander Tzonis e Liane Lefaivre, l’università berlinese, localizzata in uno dei più ricchi sobborghi residenziali della città, punta a risucchiarne gli abitanti con l’intento di dissipare la loro identità suburbana [Fig.8] e “convertirli ad uno stile di vita più umanistico”. [23] Oltre ciò, tuttavia, l’università-bazaar non può andare. Lo ha notato Kenneth Frampton, affermando che “per quanto un’università possa funzionare come una città in microcosmo, essa non può generare la diversità propria della città.”. [24] A Berlino, e in seguito a Dublino, la promessa dell’università=città si mostra in tutto il suo splendore retorico. 

Dublino è, per De Carlo, l’occasione di prendere le misure per la definizione di quello che, nei suoi scritti, avrebbe definito come un nuovo modello di università. Il tentativo di superare modelli assodati e, secondo l’architetto genovese, diventati ormai equamente inefficaci – il campus di matrice americana, il complesso universitario di origine mitteleuropea, e l’università frammentata per facoltà disperse come atomi di un sistema schizofrenico in Italia [25] – è affrontato a Dublino sul campo che risulta canonico per gli anni ’60: la localizzazione di un grande insediamento universitario in un’area periferica della città. Innumerevoli, infatti, sono le università nel mondo occidentale che, nell’arco di circa un decennio, espandono o costruiscono interi nuovi insediamenti in aree sottratte dal dominio rurale. Tuttavia, per De Carlo la questione non sta nel comprendere l’università come interna o esterna alla città. Piuttosto, l’università diviene l’istituzione chiave per un ripensamento dell’idea stessa di città: quella Città Regione che, l’anno prima alla Conferenza di Stresa, De Carlo ha contribuito a definire come il nuovo ambito di azione dell’urbanistica. [26]

L’interesse nel leggere l’università come fondamento di una ristrutturazione dell’idea di città è dunque la costante dell’opera di De Carlo che, tuttavia, non si riscontra nella costruzione di un prototipo né nella reiterazione di un modello architettonico definito. A Dublino, De Carlo inizia a rimescolare gli elementi che costituiscono un grande complesso universitario. In tal modo, egli punta a infiltrare, tra gli spazi più specializzati, una serie di spazi generici di uso pubblico, e definisce lo spazio esterno dell’università come nuovo parco urbano teso a intercettare la nuova dimensione del tempo libero che va modificando profondamente il tessuto sociale urbano. Sebbene localizzato in periferia, l’insediamento ha dimensioni tali da poter ambire a porsi come tassello di una proiezione urbana alla grande scala. Tale intento non è dissimile rispetto all’operazione che, in contemporanea, De Carlo mette in atto a Urbino. La contrapposizione di una nuova “roccaforte” – i nuovi collegi universitari – a quella esistente della città medievale - a sua volta riletta attraverso l’iniezione di spazi accademici - esprime una concezione dell’”urbano” oltre la scala di ciò che ancora evoca, per lo meno in Italia, il termine “città”. [27]

Il percorso iniziato a Urbino e Dublino sfocia nel Piano di Ristrutturazione dell’Università di Pavia, sul quale De Carlo inizia a lavorare nel 1971. [28] Nella città lombarda, la dimensione territoriale della città e dell’università vengono affermate nella maniera più esplicita. Non solo il dislocamento di “poli” universitari di diversa gerarchia d’uso pubblico e specializzazione degli spazi avviene in diverse aree dell’ambito propriamente urbano – i poli “centrali”, “intermedi” e “periferici” che, come a Urbino, mescolano riuso di strutture esistenti e costruzione di nuovi edifici. Nelle intenzioni del Piano, l’università si dota anche di elementi mobili, concepiti come osservatori temporanei in continuo pellegrinaggio [Fig.9] su un vasto territorio regionale. 

L’università diventa, così, il tassello-chiave per ripensare la città come un’entità alla scala territoriale. Più nello specifico, tuttavia, ciò che De Carlo raggiunge a Pavia è la definitiva affermazione del progetto architettonico come strumento per mettere in crisi l’idea stessa di università. Questo avviene in maniera molto diversa da quanto fatto da Woods con la sua università-bazaar, tutta rivolta ad attuare ricombinazioni interne alla grande macchina-edificio ma che, in definitiva, non si spinge ad affermare un’effettiva deterritorializzazione dell’educazione avanzata: l’università rimane quel grande complesso fortificato contro cui si scagliava la generazione del ’68. 

Nel definire l’università come un sistema di poli sparsi per il tessuto urbano, al contempo iniettando in esso spazi generici per un uso il più possibile pubblico, De Carlo mira a diluire i sistemi di potere accademico, destabilizzando la vecchia università centralizzata. In questo modo, egli risponde con lo strumento del progetto alla critica all’”unità di luogo” dei sistemi scolastici, avanzata nel saggio del 1969. L’università è esplosa e trasformata in una grande infrastruttura urbana in cui l’uso propriamente accademico si auspica sia solo un momento transitorio: il vero obiettivo è stabilire le condizioni spaziali in cui si possano definire continue re-territorializzazioni [29]; in cui possano, cioè, essere praticate forme diverse di apprendimento oltre a quelle tradizionali e impositive somministrate dall’istituzione accademica, in tal modo puntando verso quella descolarizzazione della società predicata da Illich.

Il risultato è quell’assemblaggio urbanistico in un continuo stato d’inquietudine, descritto da Stan Allen come corretta interpretazione della nozione di mat-building. Laddove il diagramma ideato da Woods identifica città e università attraverso una comprensione del mat-building come sostantivo – il mat-building, un oggetto costruito che è ipoteticamente capace di ricreare la città – a Pavia, e quindi anche a Urbino e a Dublino, mat-building è interpretato da De Carlo come verbo, come processo in continuo divenire. E non potrebbe essere altrimenti, per un’istituzione, quella universitaria, in continua irrequietudine; un’università che non si vuole “integrare” nella città, ma che si dichiara debba necessariamente agire da elemento di disturbo. Pena la sua definitiva morte, che ancora oggi stiamo piangendo.    

Note
[1] Questo testo è una rielaborazione di una parte della tesi di Dottorato in Architettura dell’autore, dal titolo The University as a Settlement Principle. The Territorialisation of Knowledge in 1970s Italy (Università degli Studi di Cagliari, 2015).
[2] G. De Carlo, Comment on the Free University, Architecture Plus 2, no. 1 (Gennaio 1974): 50–51.
[3] S. Woods, Remember the Spring of the Old Days?, Architecture Plus 2, no. 1 (Gennaio 1974): 51.
[4] Per una discussione recente e di ampio respiro dell’espansione istituzionale e spaziale dell’università durante gli anni ’60 e ’70 si veda: S. Muthesius, The Postwar University: Utopianist Campus and College (London: Yale University Press, 2000). Numerose sono le pubblicazioni di architettura che si occuparono del mutamento dell’università all’epoca dei fatti. Tra queste si rimanda, per una discussione principalmente anglo-americana, a: Clark Kerr, The Uses of the University (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1963); Richard P. Dober, Campus Planning (New York: Reinhold Pub. Corp., 1963); Michael Brawne, a cura di, University Planning and Design: A Symposium, Architectural Association Paper 3 (London: Lund Humphries for the Architectural Association, 1967). Simili contributi provenirono da architetti italiani, tra cui si rimanda in particolare a: G. De Carlo, a cura di, Pianificazione E Disegno Delle Università (Roma: Edizioni universitarie italiane, 1968); P. Coppola Pignatelli, L’Università in Espansione. Orientamenti Dell’edilizia Universitaria (Milano: Etas Kompass, 1969).
[5] J. Rykwert, Universities as Institutional Archetypes of Our Age, Zodiac 18 (1968): 61–63.
[6] VV.AA., Contro l’Università. I Principali Documenti Della Critica Radicale Alle Istituzioni Accademiche Del Sessantotto (Milano: Mimesis, 2008).
[7] Cfr. M. Biraghi, Università. La Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, in Italia 60/70. Una stagione dell’architettura, a cura di M. Biraghi et al., 87-98, Il Poligrafo, Padova, 2010.
[8] Woods usò lo stesso titolo per un suo libro, pubblicato postumo. Cfr. Shadrach Woods, The Man in the Street. A Polemic on Urbanism (Baltimore: Penguin Books, 1975).
[9] Il progetto fu ampiamente pubblicato sulle riviste internazionali di architettura. Si veda in particolare: Architectural Design, Agosto 1964 (numero sul Team X) e Gennaio 1974, e S. Woods, Free University Berlin, a cura di J. Donat (New York: The Viking Press, 1965), 116–17. Si veda anche G. Feld et al., a cura di, Free University, Berlin: Candilis, Josic, Woods, Schiedhelm (London: Architectural Association, 1999). Per una discussione dell'opera di Candilis, Josic & Woods si veda: Tom Avermaete, Another Modern. The Post-War Architecture and Urbanism of Candilis-Josic-Woods (Rotterdam: NAi, 2005).
[10] A. Smithson, How to Recognise and Read Mat Building, Architectural Design, no. 9 (Settembre 1974): 573–90.
[11] Eric Mumford, The Emergence of Mat or Field Buildings, in Le Corbusier’s Venice Hospital and the Mat Building Revival, a cura di Hashim Sarkis (Munich London New York: Prestel Verlag, 2001), 48–65.
[12] Stan Allen, Mat Urbanism: The Thick 2-D, in Le Corbusier’s Venice Hospital and the Mat Building Revival, a cura di H. Sarkis (Munich London New York: Prestel Verlag, 2001), 118–26.
[13] T. Hyde, How to Construct an Architectural Geneaology, in Le Corbusier’s Venice Hospital and the Mat Building Revival, a cura di H. Sarkis (Munich London New York: Prestel Verlag, 2001), 104–17.
[14] Tra i testi principali si ricordano: G. De Carlo, Why/How to Build School Buildings, Harvard Educational Review, no. 4 (1969) ripubblicato come Ordine Istituzione Educazione Disordine, Casabella, no. 368–69 (Agosto 1972): 12–35; La Piramide Rovesciata (Bari: De Donato, 1968); Pianificazione E Disegno Delle Università;: 65–71; Il Territorio Senza Università, Parametro, no. 21–22 (Novembre 1973): 38–39.
[15] Un interessante studio del rapporto tra università e città che, nonostante il titolo, va oltre la metafora dell’identità tra le due è Sharon Haar, The City as Campus: Urbanism and Higher Education in Chicago (Minneapolis: University of Minnesota Press, 2011).
[16] Shadrach Woods, The Education Bazaar, Harvard Educational Review, no. 4 (1969): 116–25.
[17] G. De Carlo, Why/How to Build School Buildings.
[18] J. Dewey, Experience and Education (New York: The Macmillan company, 1938); Ivan Illich, Deschooling Society (London and New York: Marion Boyars, 1970).
[19] Una nota manoscritta di Woods conservata agli Avery Drawings & Archives della Columbia University mostra in maniera esplicita questo contrasto: la scritta originaria University in City è modificata in University as City.
[20] Per il progetto di De Carlo per Dublino si veda: Giancarlo De Carlo, Proposta per Una Struttura Universitaria (Venezia: Cluva, 1965).
[21] Woods, Remember the Spring of the Old Days?.
[22] S. Woods, The Education Super Mart, Avery Drawings & Archives, Shadrach Woods Archive, Papers collection, Feld Box 08.
[23] A. Tzonis and L. Lefaivre, Beyond Monuments, Beyond Zip-a-Tone, Into Space/Time, in Free University Berlin: Candilis, Josic, Woods, Schiedhelm, by Architectural Association, Exemplary Projects 3 (London: AA Publications, 1999); mia traduzione dall'inglese.
[24] K. Frampton, Modern Architecture: A Critical History (London: Thames and Hudson, 1980), p.277; mia traduzione dall'edizione inglese.
[25] Questi modelli sono discussi da De Carlo nell’introduzione a De Carlo, Pianificazione E Disegno Delle Università.
[26] “La prima ipotesi considera che la città regione sia una città a smisurata crescita, che si espande e dilaga nel territorio sotto forma di continuo urbano […] La seconda ipotesi considera che la città regione sia una agglomerazione di centri che, pur essendo coinvolti da un comune processo di sviluppo, conservano una loro autonoma esistenza […] La terza ipotesi considera la città regione come un artificio di forme, atto a risolvere i problemi della congestione. Infine c’è una quarta ipotesi – con la quale personalmente concordo – che considera la città regione come una relazione dinamica che si sostituisce alla condizione statica della città tradizionale.”Giancarlo De Carlo, ‘Relazione Conclusiva al Seminario dell’ILSES Sulla Nuova Dimensione e La Città-Regione’ (Stresa, 1962).
[27] Tra i numerosi testi sul lavoro di De Carlo a Urbino si veda: Giancarlo De Carlo and Pierluigi Nicolin, Conversation on Urbino, Lotus International, no. 18 (Marzo 1978): 6–22.
[28] I materiali originali del Piano per l’Università di Pavia sono contenuti in Giancarlo De Carlo, Pavia Piano Universitario: Relazione Generale, 18 February 1974, IUAV Archivio Progetti, Fondo De Carlo, pro/057.1/18/22, 040550, Venezia. Il Piano è discusso da De Carlo in Giancarlo De Carlo, Un Caso Di Studio: l’Universicittà Di Pavia, Parametro, no. 44 (Marzo 1976): 20–22, e Un Ruolo Diverso dell’Università: Il Modello Multipolare per l’Università Di Pavia, in Progettare L’università, di Giuseppe Rebecchini (Roma: Edizioni Kappa, 1981), 144–51.
[29] Sull’università come ciclo continuo di de-territorializzazione e ri-territorializzazione si veda Gerald Raunig, Factories of Knowledge. Industries of Creativity (Los Angeles: Semiotext (e), 2013).  

Bibliografia 
S. Allen, Mat Urbanism: The Thick 2-D, in Le Corbusier’s Venice Hospital and the Mat Building Revival, edited by H. Sarkis, 118–26, Prestel Verlag, Munich London New York, 2001.
T. Avermaete, Another Modern, The Post-War Architecture and Urbanism of Candilis-Josic-Woods, NAi, Rotterdam, 2005.
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Francesco Zuddas (PhD, MA) è Senior Lecturer alla Leeds School of Architecture e Associate Lecturer alla Central Saint Martins a Londra. Ha studiato architettura, ingegneria e urbanistica all'Università di Cagliari - dove ha anche insegnato tra il 2009 e il 2015 - e all'Architectural Association. Nella sua tesi di dottorato "“The University as Settlement Principle” ha indagato lo spazio dell'università come campo critico di prova per un'idea di città.




Candilis, Josic & Woods, progetti di concorso per la Libera Università di Berlino (1962-63, sopra) e per la ricostruzione del centro di Francoforte (1961, sotto). - ZOOM

Candilis, Josic & Woods, progetti di concorso per la Libera Università di Berlino (1962-63, sopra) e per la ricostruzione del centro di Francoforte (1961, sotto).