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Festival dell'architettura

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Marina Tornatora

Multiple-city e Smart-city

OPEN-DOMINO nei territori marginali e interrotti dell’estremo sud

open DOMINO: visioni marginali - ZOOM

open DOMINO: visioni marginali

Abstract
Il patrimonio edilizio esistente oggi è inadeguato alle esigenze della contemporaneità e pone all’architettura la necessità di sperimentare modalità d’intervento, implementate dalle nuove tecnologie ma all’interno dei propri strumenti espressivi e del proprio universo tecnico costruttivo. Un’esperienza didattica su un quartiere marginale della periferia meridionale, preso come campione emblematico, è l’occasione per rielaborare il modello base ricorrente - Maison Domino - come un sistema aperto.

Testo
Nel dibattito architettonico contemporaneo la città vive un momento di grande interesse e attenzione che assorbe una moltitudine di visioni anche tra di loro contrastanti nelle quali sembra sempre più escluso il ruolo del progetto urbano e architettonico come momento di trasformazione e conoscenza.
La mancanza di una condizione condivisa di qualità o di estetica urbana comporta una frammentarietà di visioni che spesso sfociano in una spettacolarizzazione dell’oggetto architettonico, concepito come scultura in formato gigante che si oppone con la sua individualità alla conformità urbana.
I simulacri formali delle archistars diventano moda, logo, brand, firma riconosciuta, garanzia per il successo di musei, negozi, brani di città. L’architettura come l’arte è diventata spettacolo, si smaterializza per diventare “l’allusione di un guizzo creativo, la possibilità di acquisirne l’atmosfera, l’allure”. (La Cecla, 2008)
A questa deriva più recentemente si è sovrapposta la dimensione digitale della Smart city che sta contribuendo a far perdere alla città il suo corpo fisico. Non vi è dubbio che le nuove tecnologie applicate ai contesti urbani sono delle risorse strategiche che forniscono grandi opportunità (design dell’esperienza, sensoristica e nuovi materiali, NGN, Cloud e Internet of Things) nelle quali l’idea smart si sta arricchendo di nuovi significati, acquisendo valenza sociale e ambientale.
Tuttavia il trasferimento della realtà nel cyberspazio comporta la perdita del valore tangibile e reale della città verso una sua proiezione immateriale, trasformandola in “una postcittà, un multi verso costantemente cangiante nel quale le relazioni primarie tra il tempo e lo spazio vengono completamente sovvertite. [….] La postcittà è una Smart city” (Purini, 2014)
Lo spazio cibernetico scompagina le coordinate classiche fisico-geometriche e si sviluppa attorno all’idea di connessione e simultaneità, prefigurazione già anticipata dagli Archigram agli inizi degli anni sessanta con risvolti più figurativi e visionari. Istant city, Interchange city, Walking city e Plug-in city come smart city ante litteram, metafore dello spazio informatico, nelle quali i trasporti sono interconnessi e modali, i reticoli infrastrutturali costruiscono circuiti di relazioni virtuali secondo un’idea spaziale molto vicina al network elettronico, regolata dal plug-in cioè dalla connessione di tutte le parti tra loro.

Oggi la dimensione virtuale sostituisce l’esperienza dello spazio con la sua immagine, rivelata in un montaggio di parti che, attraverso lo strumento dello zoom, è possibile inquadrare rapidamente da molto vicino al molto lontano, dal dettaglio sino alla visione satellitare, costruendo uno spazio astratto e atopico, senza relazioni fisiche con i luoghi. Questa dimensione trova conferma nella propensione all’atopia spaziale che caratterizza i nuovi impianti insediativi in corrispondenza dei grandi contenitori urbani, assimilabili a oggetti di consumo senza relazioni spaziali con il luogo. In questa direzione s’inscrive la crisi dello spazio urbano aperto come luogo dell’incontro, sempre più spostato nei centri commerciali e ancora di più nello spazio virtuale dei social network, che come l’agorà della polis greca sono diventati lo spazio della discussione collettiva pubblica in una condizione globale di connessione on-line, con la conseguente compressione delle coordinate tempo-spazio.
Se il mondo digitale dota i contesti urbani di nuove strumentazioni, aprendo a nuove mappe relazionali, tuttavia non riesce a restituire la vera natura delle città, costruita da una corrispondenza metrica e fisica, fatta di materiali, grandezze, distanze, vuoti, ripetizioni, frammenti posti in relazioni semplici o complesse, ordinate o disordinate. Si vengono così a costituire due microcosmi, quello città reale e quello delle città digitali, che definiscono un laboratorio di sperimentazione per il progetto architettonico e urbano chiamato ancora a rispondere alla sua funzione genetica di produzione di forme dotate di significato e di relazioni con i luoghi e alla possibilità di “dar forma visibile e significativa alla risoluzione di un problema” (Gregotti, 2000).
Alla luce di queste considerazioni diventa indispensabile approfondire la condizione della città contemporanea nella sua natura fisica e in particolare su quella parte di città che definiamo periferia, dove s’insedia la stragrande maggioranza di popolazione sul piano mondiale.
Questa immensa estensione è caratterizzata da una materia edilizia inerte e spesso informe, inadeguata a rispondere alle esigenze della contemporaneità (famiglia, lavoro, stili di vita, istruzione, tempo libero, etc.), che dilaga sottraendo suolo e ponendo interrogativi immediati sul piano della sostenibilità, della decrescita, dell’uso razionale delle risorse, quindi del buon governo, categorie sempre più incombenti sul senso e sui modi di pensare il progetto architettonico e urbano.
Il patrimonio edilizio esistente pone la ricerca, e quindi l’azione progettuale, di fronte alla necessità urgente di sperimentare nuove modalità d’intervento capaci di uscire da un’alternativa tra un’idea di “museificazione” dei centri storici, e quella della “tabula rasa”, identificativa di un atteggiamento globalizzante diffuso nelle grandi metropoli orientali.
Si pone un problema quindi di rigenerare parti consistenti di città che, da un lato corrisponde al bisogno di utilizzo di risorse esistenti, dall’altro spinge a rispondere al bisogno di valorizzazione della cultura e delle identità delle città, come necessità di riconoscere i luoghi, per troppo tempo sottoposti ad azioni degradanti e informi. Le città aspirano a essere più vivibili, con una presa di coscienza sulle contraddizioni e i limiti di un certo tipo di sviluppo e alla luce dei problemi che si evidenziano sul piano planetario: inquinamento ambientale, qualità della vita, etc.
“Rapporto sui limiti dello sviluppo” (Club di Roma, 1993), non corrisponde solo al superamento della modernità, ma un modo per ripensare anche l’azione progettuale nella città e nel paesaggio esistenti che assume un significato specifico nelle realtà del sud del mondo, e nella realtà meridionale italiana dove una “modernizzazione senza sviluppo” (Cassano, 2007) ha creato spesso un’immensa periferia ibrida, interrotta e incompleta.
Questa materia oggi costituisce un corpo da modificare, da alterare con la convinzione che le aree periferiche meridionali, non ritenute strategiche all’interno del sistema globalizzato ci offrono un “terzo paesaggio” (Gilles Clément, 2005), un nuovo territorio dove sviluppare biodiversità architettoniche (Zardini, 2009) e operare quelle pratiche progettuali cancellate dalla cultura del marketing oggi imperante. Si amplia lo scenario operativo per l’architettura, non solo high-tech, bigness o shop architectures, non solo musei, centri commerciali e centri culturali, nuovi simboli della comunicazione e del consumo, ma l’architettura del reale, di quell’esistente che si presenta come un corpo disaggregato, fatto di frammenti, di pezzi interrotti, di brani lacerati che necessita strategie e strumenti nuovi.
Un impegnativo lavoro di rielaborazione e riarticolazione dentro la città che include le fragilità dell’esistente senza distruggerle attraverso un atto di scrittura critica che si propone di individuare nuovi cicli di vita, superando i miti della modernità e contemporaneamente ripartendo da quanto questa ha prodotto per riuscire a compierla pienamente tentando di correggerne le distorsioni. L’idea di edificio si modifica, non più metafora moderna della macchina, non più organismo classico alla maniera dell’Alberti e di Vitruvio, non solo corpo immateriale attraversato da flussi e da correnti energetiche, piuttosto materia vivente che si autoriproduce. Tale prospettiva non si confronta solo all’interno delle attitudini dell’edificio, ma necessita del nuovo come effetto di un insieme di modalità compositive che hanno come effetto la contaminazione (Purini, 2008), intesa come qualcosa di infettivo, un virus, un rischio genetico necessario perché migliorativo. Un’architettura della postproduzione (Bourriaud, 2004) in cui l’opera è creata sulla base di opere già esistenti, rielaborate.
L’idea di non ricercare forme nuove ma riutilizzare le parti esistenti, contaminandole con ricerche, tecnologie e sperimentazioni, rappresenta lo sfondo tematico del Laboratorio di Progettazione su uno dei quartieri più periferici e abusivi di Reggio Calabria: San Sperato.
Qui un’edilizia informe e incompleta è dilagata sui suoli agricoli, definendo relazioni inadeguate tra la dimensione rurale e le esigenze della vita contemporaneità, in una mancanza diffusa di qualità architettonica e urbana, di sistemi d’infrastrutturazione primaria che configurano una condizione ibrida tra città e natura.
Su questa mescolanza di parti e oggetti, che costituisce il corpo fisico di un esistente impreciso e contaminato, si è condotta un’esplorazione ravvicinata che ha permesso di selezionare un campione significativo di manufatti urbani privi di qualità formali e coerenza costruttiva, caratterizzati dall’incompletezza del telaio strutturale in c.a., da quel non finito di pilastri con i ferri nudi metafora dell’incompiuto, ma anche della “modernità”.
Principio genetico e modello base più diffuso di questa materia è la Maison Domino, che è stata assunta come un sistema aperto – Open Domino – sul quale operare azioni progettuali: riscrivere, ampliare, gerarchizzare, ricuciture, inserire, demolire, diradare, aggiungere, scavare, manomettere, riconoscere limiti e soglie concrete, collidere e/o introiettare pezzi di realtà. L’obiettivo del lavoro è quello di attivare dinamiche più aperte, non piegate a stereotipi e mode omologanti, per riscrivere e reimpaginare questo testo urbano, nel quale il sistema delle smart city può solo supportare ma non sostituire gli strumenti disciplinari dell’architettura in questi contesti chiamata a intervenire sulle questioni urgenti di adeguamento alla sicurezza sismica, di riprogetto funzionale degli interni, di restauro del paesaggio, uso delle tecnologie per il risparmio energetico e di utilizzo delle fonti energetiche alternative e uso delle aree dismesse e marginali. La finalità di questo lavoro è la riattivazione di quelle condizioni urbane e insediative collettive insufficienti o del tutto mancanti nelle realtà meridionali e in particolare in Calabria, che oggi rappresenta una The Third Island.

Bibliografia
La Cecla F. (2008), Contro l’architettura. Torino: Bollati Boringhieri, 
Purini F. (2014), Frammenti sulla postcittà, in O. Amaro, L. Thermes, M. Tornatora (a cura di) Il progetto dell’esistente e il restauro del paesaggio, Reggio Calabria e Messina: l’Area dello Stretto. Reggio Calabria: Iiriti.
Gregotti V. (2000), Sulle orme del Palladio. Ragioni e pratica dell’architettura. Bari: Laterza 
Meadows D., Meadows D., (1972) Il Rapporto sui limiti dello sviluppo. Club di Roma
Fondazione Aurelio Peccei (1993), Lezioni per il ventunesimo secolo, scritti di Aurelio Peccei. Presidenza del Consiglio dei Ministri. Roma: Dipartimento per l'informazione e l'editoria.
Cassano F. (2007), Il Pensiero Meridiano. Bari: Laterza
Gilles Clement (2005), Manifesto del Terzo paesaggio. Macerata: Quodlibet
Zardini M. (2009), Diversi modi per diventare verdi, ecologici e sostenibili. Lotus International,140 
Purini F. (2008), Architettura virale. Lotus International,133
Bourriaud N. (2004), Postprodution. Come l’arte riprogramma il mondo. Milano: Postmedia book
The Third Island, Progetto di ricerca di Antonio Ottomanelli, Irac, Parasite, Gianfranco Neri, Marina Tornatora e Ottavio Amaro - Dipartimento dArte dell’Università Mediterranea di Reggio C. (in corso di pubblicazione)

Marina Tornatora è Ricercatrice in Composizione Architettonica e docente presso il dArTe – Dipartimento Architettura e Territorio, Università Mediterranea di Reggio Calabria. Consegue il PHD presso l’Università degli Studi di Napoli "Federico II", con la tesi Oltre il Progetto Urbano. E’ membro del Collegio del Dottorato di Ricerca Architettura e Territorio e dal 2002 fa parte del Comitato Organizzatore del Laboratorio Lid’A. All’attività di ricerca affianca una sperimentazione progettuale all’interno del gruppo For(m)a-b, partecipando a concorsi ed mostre (Architetti italiani under 50, Triennale di Milano 2004; Progetto per il porto di Crotone,10 Biennale di Venezia 2006; “ITALY IS NOW”, Congresso UIA , Tokyo 2011)
Laboratorio di Progettazione 1 Università Mediterranea di Reggio C. Doc: M. Tornatora, CM: L. La Giusa, M. Figliomeni

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Laboratorio di Progettazione 1 Università Mediterranea di Reggio C. Doc: M. Tornatora, CM: L. La Giusa, M. Figliomeni