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Paulo Mendes da Rocha

La sostenibile leggerezza dello spazio

Carlo Gandolfi

Paulo Mendes da Rocha, Padiglione del Brasile all'Expo di Osaka, 1969. Modello di Carlo Gandolfi

Paulo Mendes da Rocha, Padiglione del Brasile all'Expo di Osaka, 1969. Modello di Carlo Gandolfi

In un articolo intitolato “Il signore volante”, Lorenzo Mammì [1], descrive la grande capacità di Fred Astaire di condensare nelle sue danze il tip-tap (industriale, sincopato, clandestino, moderno e urbano) con il walzer (al contrario, fluido nello spazio e borghese malgrado di origine campagnola).

Volteggiando nello spazio, l’artista compie nelle sue danze gesti quasi atletici senza per questo mai rinunciare ad un efficace sorriso di scena e, soprattutto, senza far trasparire gli sforzi fisici di grande intensità: Astaire calca leggero la scena trasmettendo la sensazione di un movimento spontaneo e privo di affettazione, con aristocratica nonchalance.
Per l'Expo internazionale di Osaka del 1969, Paulo Mendes da Rocha ha progettato una grande copertura cassettonata – con un esplicito richiamo a quella della Facoltà di Architettura di San Paolo (1961) di Vilanova Artigas - che poggia su quattro punti mediati da altrettanti giunti. Uno di essi è la chiave di volta di un insolito incrocio tra archi, mentre gli altri tre toccano direttamente il culmine dei rilievi del terreno artificiale ondulato, fatto di sinuose colline.

Le analogie con la nonchalance di Astaire non sono poche. La compresenza di fluidità e reiterazione meccanica dal punto di vista spaziale e compositivo; la dissimulazione dello sforzo strutturale che, invece, mostra e descrive la tecnologia; la delicatezza di gesti intelligibili e che rimangono disegnati nella memoria.
Nei progetti di Mendes la tecnica non è mai fine, ma è speranza, cultura, trasformazione. Le grandi luci sono possibili, plausibili e sensate perché segno forte portatore di senso alto, perché vogliono raccontare le possibilità dell'uomo. È così che la struttura è sempre un mezzo civile, culturale, concettuale dove la tensione è spaziale e la potenza è tecnologica e sperimentale. Il risultato è sempre la leggerezza che sorregge edifici forti come fossero concetti chiari in mezzo al caos.

Nell'entropia della metropoli infinita, infatti, il segno chiaro è un vero e proprio farmaco. Poter ricordare un luogo significa potersi orientare nuovamente, poter descrivere e ricordare una città che sarebbe altrimenti composta di successioni di spazi qualunque, priva di quei tratti distintivi di quello che lo stesso Paulo Mendes chiama discorso.

«L'arte consiste spesso nel seguire al contempo indirizzi tra di loro in contrasto. L'artista somiglia sempre un po', senza parere, a quegli atleti che eseguono con facilità e come per gioco movimenti in contrasto con la natura [...]»[2]
L'eseguire con facilità ciò che contrasta con la natura: ossia lottare con leggerezza – senza gravitas – proprio in opposizione alla gravità. La leggerezza – la facilità – è quindi l'antidoto all'inelegante sforzo, la soluzione al modo impacciato di incedere, di muoversi nello spazio.

La tecnica esprime, in Paulo Mendes da Rocha, la sua attitudine spontanea, quasi una sorta di missione ontologica: quella di risolvere problemi strutturali di grande portata, senza rinunciare a puntare al loro massimo grado di possibilità.

L'allenamento dell'atleta di cui parla Callois è quindi la consuetudine con la quale la tecnica si misura e, grazie alla quale, affronta lo spazio e “vince il vuoto”[3] con facilità, senza ostentazione alcuna di eccessive muscolature. Questa facilità si traduce in una concentrazione doppia sul senso dello spazio: leggero, sostenuto dal concetto e dalla necessarietà che lo presiede.
Nonchalance in italiano ha a che vedere con il disinteresse: viene dal franchese non + chaloir e, in latino, calere, significa anche desiderare.

Daniel Baremboim, riprendendo le parole del pianista e compositore italiano Ferruccio Busoni, definisce la musica come «aria sonora» e dice che «ci insegna il collegamento tra trasparenza, potenza e forza»[4]. L'architettura di Paulo Mendes, è come se ci insegnasse, proprio grazie all'assenza di desiderio di apparire, come questo collegamento possa avvenire non nella musica, ma nello spazio dei nostri giorni.

Carlo Gandolfi, Architetto e Dottorando in Composizione Architettonica all'Università IUAV di Venezia

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[1] Filosofo e critico musicale di origine italiana operante in Brasile.
[2] Roger Caillois, Forma e sostanza, in Babel, précedé de vocabulaire estétique, Gallimard, Paris, 1948; trad. it. Babele, preceduto da Vocabolario estetico, con postfazione di Marguerite Yourcenar, Marietti, Casale Monferrato, 1983.
[3] In portoghese l'espressione “vencer um vão”, letteralmente “vincere un vano, un vuoto” corrisponde all'italiano “coprire una luce”. La lingua contiene già di per sé una sorta di connotazione concettuale e contenutistica: è come se, appunto, la struttura vincesse su di un vuoto, come se la tecnica dovesse sfidare la gravità per determinare spazio.
[4] Daniel Baremboim, La musica sveglia il tempo, Feltrinelli, Milano, 2007

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Fred Astaire ritratto da Martin Munkacsi

Fred Astaire ritratto da Martin Munkacsi