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19/04/2024
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CITTÀ

Notte in Galleria, Milano 1881 - ZOOM
Notte in Galleria, Milano 1881
Molteplicità di racconti

Sono ormai molteplici le analisi e i tentativi di raccontare la città postindustriale; nella pluralità di metodologie e punti di vista si individua un elemento di accordo nella presa d’atto della impossibilità di un racconto univoco (Secchi 2005) e di ogni tentativo di una messa in forma totalizzante della metropoli. Dagli studi degli anni ’80 di geografi che hanno definito la natura e struttura della città diffusa (Gottman 1970), alle analisi antropologiche che indagano lo stato di disagio e la perdita d’identità dell’individuo all’interno della struttura urbana (Augé 1992; La Cecla 1988), affiancate e rafforzate dalle ricerche sociologiche, urbanisti e architetti sono ripartiti per mettere in discussione metodi e strumenti del progetto modernista, storici della città e delle ideologie urbane cercano di individuare modalità di indagine e modelli di racconto. Così, ad esempio, Fortier (Fortier 1983) definisce come Ritorno a Manhattan la ricerca di una nuova centralità urbana a cui porta, a partire dagli anni ’60, una nuova proposta di città che supera il progetto modernista passando dalla proposta di città dispersa di Archigram, al tentativo di recupero del modello di crescita caratterizzata dalla agglomerazione, che il progetto moderno aveva invece rigettato proponendo il modello della ‘dispersione’ caratterizzata dall’abbandono della ‘cultura della modificazione’ su cui invece si è basata la crescita urbana dal Rinascimento sino all’800. Fortier chiude il suo intervento ipotizzando che le società avanzate “Lungi dall’esigere dagli architetti che ricompongano il mondo d’oggetti che hanno contribuito a creare (...) potrebbero benissimo lasciar loro l’illusione di possedere ancora degli appigli su un discontinuo di operazioni del tutto isolate (...), affidando agli architetti la cura di vestire una collezione in cui il vuoto, lo spaziamento o le lacune sarebbero, una volta per tutte non pensati”.

Come non ricollegare una tale ipotesi al più recente dibattito sulle architetture iconiche, quegli stessi oggetti che anche attraverso il progetto della luce si distaccano all’interno del paesaggio urbano, modificandolo.

Il ruolo della luce è determinante anche in altri racconti basati sulle modalità di ricezione o sull’analisi delle nuove mitologie urbane.
Amendola, come abbiamo visto, individua nello sdoppiamento tra la città della realtà e della possibilità (quello degli eventi e degli spettacoli in cui la luce domina) e nel sovraccarico di segnali una delle caratteristiche della città postmoderna.
Luce come stratificazione di messaggi caratterizza la città allestimento di Altarelli (2006, pp.25-26): “La città in allestimento è la città orfana delle prefigurazioni unitarie dove l’architettura si ritira dalle grandi narrazioni urbane incompiute della modernità. E’ la città delle cose, delle insegne, della pubblicità dove le brand architecture si isolano nel loro assolo urbano, in un vuoto che tende più a dividere che a unire. Stabilendo relazioni che esaltano differenze più che analogie e trovando, in questo vuoto, ancora un possibile esito narrativo: sicuramente diverso dalla città del passato, unitario per tessuti e per rapporti bilanciati tra tipologie e morfologie urbane, ma tuttavia ancora non del tutto residuale. Se guardiamo agli innesti della città contemporanea sul corpo della città storica, questa sovrimpressione di insegne, di showlight, di proiezioni e di installazioni, tra l’artistico e il multimediale, di ibridazioni meticcie, tra forme del consumo e consumo di forme, di forme della frammentazione e di frammentazione di forme, tra istantaneità e discontinuità, ha attuato una trasformazione forte del centro e dei suoi usi. Questa modificazione dell’esistente ha caratteristiche diverse sia dai progetti urbani del Moderno, basati sulla strategia della tabula rasa, l’epifania cioè del nuovo opposto alla conservazione dell’esistente, sia dalla successiva strategia dei proibizionismi e dei divieti opposti, dal dopoguerra a oggi, a difesa della città storica.”
 
Esposizione universale di Parigi, la Tour Eiffel illuminata, 1889
Esposizione universale di Parigi, la Tour Eiffel illuminata, 1889
Parigi metropoli della modernità

Se il recupero del mito della città simbolo della modernità, Parigi, città del flâneur, rappresenta una costante nel racconto della città postmoderna, soprattutto attraverso la lente e il mosaico dei Passegen-Werk di Benjamin, c’è chi sostiene, come Grispignani (‘Qualcosa di travolgente. I conflitti impolitici, in Città 1990) l’impossibilità di accomunare la metropoli del XIX secolo con quella del XX secolo, oggetto frattale dove domina la circolazione delle informazioni e la distribuzione della merce. Anche nell’analisi di Desideri (Senza luogo. A procedere, in Città 1990) nella città senza luoghi “la forte connotazione semantica è spesa a consentire una loro sovracontestuale dappertuttità … allestimento, illuminazione, caratteristica e insegne, ologrammi e frammenti di prodotti industriali concorrono alla definizione di questi spazi assai più che non la configurazione spaziale e volumetrica dell’architettura che li contiene”. I luoghi della luce nella città postindustriale sono sia quelli delle periferie urbane che quelli dei centri monumentali, e la luce può diventare sia messaggio che segnale che contribuisce alla perdita dell’identità, così come nella metropoli degli anni ’20 l’architettura di vetro, finalmente progettata anche in funzione della vita notturna [rimandare a 1.2], poteva diventare, riprendendo la definizione di Sennet (1990), ‘oggetto integro’ ‘combinazione di visibilità e isolamento’.

Metropoli e luce come shock: la tradizione di letture in questo senso ha origine all’interno della critica della metropoli ottocentesca, da Simmel a Benjamin. Cacciari nel suo Metropolis (1973) sostiene che in Simmel (Die Grosstädte und das Geistesleben, 1903) il problema della metropoli in questo contesto è quello della ricerca della forma del divenire in termini neokantiani ed è un problema del rapporto tra l’esistenza moderna e le sue forme. Dal saggio del 1903 di Simmel ai frammenti su Parigi di Benjamin per Cacciari “c’è tutta l’avanguardia e la crisi”.  Nei Passagenwerk (Benjamin 1983) fra gli appunti sui Sistemi di illuminazione Benjamin annota:
“I Passages splendevano nella Parigi dell’Impero come grotte fatate. Nel 1817 chi entrava nel Passage des Panoramas era sorpreso di fianco dal canto di sirena della luce a gas e adescato di fronte da odalische in forma di lampade a olio. L’improvviso accendersi della luce elettrica cancellò l’illibato chiarore di questi passaggi, che improvvisamente divennero difficili da trovare, esercitarono una magia nera delle porte, come se da cieche finestre guardassero dentro di sé”
Ma in questo percorso si colloca anche il saggio di Endell dove la città ridotta ad immagini, ‘impressioniste’, è una metropoli che deve essere ridotta a ‘bella forma’. Endell, Die Schönheit der Grossstädte, Stüttgardt 1908, trad. it. in M. Cacciari, Metropolis. Saggi sulla grande città di Sombart, Endell, Scheffler e Simmel, Roma Officina 1973, pp. 121-164:

“La città come struttura. In confronto alle antiche città, le nostre sono senza dubbio povere in quanto a forma, a struttura. Le strade si sono allargate, le case sono divenute più alte e più grandi, ma non si è ancora capita l’importanza di dare vita alla mera forma della struttura tecnico-economica. Le strade non hanno un proprio carattere. Le piazze sono spazi vuoti, senza misura. Gli edifici non si adattano alle strade; sono imponenti, eppure non impressionano. Tra casa e strada non c’è relazione. E, per quanto ciò sia da biasimare, non c’è da meravigliarsene, se si pensa che negli ultimi decenni tecnica, industria, commercio si sono impadroniti di tutte le forze e di tutti gli ingegni creativi, e che solo ora, subentrando un periodo di stasi in quei campi, cominciano a liberarsi energie per il lavoro artistico. Queste energie cominciano lentamente a dare forma a ciò che fin’ora era stato costruito per caso o per mera necessità, senza attenzione e senza amore.

I veli del giorno. La nebbia. Soprattutto la nebbia compie questo miracolo. La sua bellezza è sempre stata, almeno un poco, apprezzata. Essa trasforma una strada. Copre tutte le case di un velo leggero, grigio, se le nuvole coprono il sole – caldo, dorato, variopinto, se il cielo è sereno. Essa muta i colori delle case, li fa più tenui e uniformi. Fa sparire le ombre più marcate; addolcisce le case dai rilievi toppo accentuati. Perfino il Duomo, questa paurosa creazione di un lavoro divenuto senza meta e senza guida, pare stupendo nei giorni d’autunno, quando, verso le dieci, la nebbia si fa più calda e trasparente. Le incavature troppo profonde, le centinaia di divisioni e suddivisioni scompaiono, riempite dalla nebbia, e la sua forma dilacerata diviene, grande, piena. La nebbia rende bella la brutta architettura, riempie le strade, che di solito corrono monotone all’infinito, e crea dal vuoto spazi compiuti.

L’aria. L’aria rende più leggero, più fine, più sommesso, ciò che la nebbia rende avvertibile anche all’occhio disattento. L’aria vaporosa delle nostre parti stende un tenue velo su tutte le cose. Lo spessore di questo velo muta continuamente, ora è quasi inesistente, ora, all’improvviso, è forte, denso. E’ bello quando la strada è tutta una gradazione dal grigio al nero, e da questo sfondo si stacca un albero ingiallito o una colonna per gli affissi. E’ bello quando, dopo un gran secco, tutto appare grigio chiaro, quasi bianco. E’ stupendo quando, dall’ombra, nelle chiare giornate d’estate, vediamo leggeri vapori stendere variopinti veli. Naturalmente, non tutto è bello, come non tutto è bello nella natura. Bisogna cercare. Ed è più difficile nella città che nella natura, dove già migliaia ne hanno cercato, dipinto, descritto bellezze. A volte, solo piccoli particolari della città sembrano belli: le rotaie del tram che luccicano sull’asfalto grigio, l’incavo di una loggia, la cui parete rossa è per metà illuminata dal sole e per metà nell’ombra, e che soffre un bellissimo contrasto con il grigio del resto della casa. Spesso però, sono grandi immagini a dare gioia; una illuminazione felice, un’armoniosa distribuzione delle ombre, che si allungano per la strada e fanno della sua regolare durata una figura grande e mossa.

La pioggia. L’effetto della pioggia è completamente diverso. Essa non fa sparire i colori, ma li fa più pesanti, più cupi, più pieni. Il grigio chiaro dell’asfalto assume un tono marron scuro. I contorni si induriscono, l’aria si fa più trasparente, gli incavi sempre più profondi. Tutto viene definito, greve. Ma su questo sfondo appare un bagliore diffuso, un meraviglioso, un meraviglioso gioco di riflessi. Tutto viene racchiuso in una rete scintillante; e le strade, da ragionevoli e utili mezzi, si trasformano in favole, in sogni luminosi.

Il crepuscolo. Più selvaggia, più fantastica è la bellezza del crepuscolo. Esso condensa il vapore del giorno in nubi sempre più scure; esalta i contorni delle case; le strade sembrano riempirsi; ogni forma diventa più silenziosa e pesante; tutti i colori più opachi e soffici; tutto si oscura lentamente. Soltanto pochi punti brillano ancora: i colori acuti di una macchina o quelli violenti di un cartellone pubblicitario, che ora appaiono soltanto chiari, leggieri, nel grigiore incombente. Ma la luce del cielo supera ogni altra: abbaglia , diffonde per tutta la strada un manto di luce guizzante, improvvisa, tremula; è dappertutto e non se ne comprende la fonte. Di colpo, l tramonto si infuoca. Tutto ciò che un attimo prima sembrava grigio e morto, diviene caldo e scintillante. L’aria è piena di caldi, variopinti colori. Tutti i toni si ravvivano. Le cime delle case e delle chiese si infiammano di un colore rosso oro. Sulle strade, al tramonto, si stende così il blu fiammeggiante della sera. Questa luce è più forte di qualsiasi luce artificiale; essa penetra nei vicoli più stretti, anzi: qui essa è ancora più forte. E’ un’esperienza senza confronti sedere a quest’ora in un caffè di città, di quelli al primo pino, e guardare la folla che si incupisce, vedere il cielo sopra di noi che si infiamma d’improvviso, e poi l’onda blu, profonda, della sera spandersi per tutte le strade, entrare nella nostra stanza attraverso le grandi finestre - dimenticare tutto in un lampo, carte, giornali, tutte le banalità e le chiacchiere di ogni giorno.

I veli del giorno. Nebbia, vapori, sole, pioggia, tramonto, queste sono le forze che con infinito avvicendarsi rivestono i grandi nidi di pietra delle case, ne amalgamano le forme, rendendole più compiute, più monumentali. Queste sono le forze che trasformano i luoghi più poveri, più disperati, in un mondo dai colori meravigliosi. Esse creano dalle case di pietra apparentemente immutabili un essere vivente, in trasformazione perenne. Nessuno potrebbe andare a fondo di tutta questa ricchezza. È già tanto riuscire a vivere ciò che ci offrono ogni giorno il nostro ambiente, il nostro quartiere, la nostra, casa, le nostre strade. […]

La strada. La strada davanti a casa rispecchia per me la vita dell’anno. Vi scendo ogni mattina e ne osservo le trasformazioni. La sua lunghezza muta a seconda della trasparenza dell’aria; le sue case appaiono più alte o più basse, più vicine o più lontane, a seconda del sole o dell’ombra. Il grigio del marciapiede e della strada, le verdi nubi degli alberi ai lati e le nere colonne dei tronchi – tutto ciò appare diverso ogni giorno. Non sempre bello, ma spesso così affascinante da non potersene staccare. Così è dappertutto. […]

La stazione di Friedrichstrasse. Meravigliosa è la stazione di Friedrichstrasse, se si passa dalla banchina sulla Spree. Da qui non è possibile vederne la ‘architettura’, ma soltanto la grandiosa superficie del ‘grembiale di vetro’ (una espressione molto brutta degli ingegneri, per designare la parte di chiusura dell’atrio di una stazione che sta sospesa trasversalmente sui binari), in contrasto con il caos delle piccole case tutt’intorno. Al crepuscolo, quando il paesaggio si confonde nell’ombra, le mille, piccole lastre di vetro cominciano a riflettere il rosso della sera, e tutta la parete è un cangiare di colori, una scintillante vita, che si slancia al di sopra dello stretto e buio pertugio, dal quale esce minacciosamente la locomotiva. E quando si entra nell’atrio ancora pieno dell’incerta luce del mattino, la grandiosa forma che si curva lentamente, ancora indistinta nella nebbia opaca, sembra un mare di toni grigi, leggeri, sfumante dal chiaro del vapore che sale, al buio del tetto e al nero delle locomotive mugghianti in partenza per l’Est. Sopra di esse appare, luminoso, come un monte, scintillante, rutilante, come una cuspide, che il sole della sera infiamma, il ‘grembiule di vetro’.

I veli della notte. Anche al notte, come il giorno, ricopre la città di mille veli variopinti. Il cielo stellato o il chiaro di luna qui non possono quasi mai farsi vedere. E’ la luce artificiale che crea infiniti giochi di colore. Già nel crepuscolo queste luci si confondono . Emergono nella strada che manda bagliori bluastri , sotto un cielo rosa che si spegne, chiaroscuro, e che smorza il tono di tutti i colori , lunghe file di verdeggianti lampioni. All’inizio appena visibili; poi, punti colorati; alla fine, quando la luce del giorno scompare, pieni di una propria vita. Lentamente, la notte si rovescia per le strade dai muri delle case, e si infittisce ai loro piedi. Il blu del cielo si incupisce e moltiplica le ombre. In questo mare accendono il loro gioco eterno le luci variopinte. I loro colori, la loro forza sono molto diversi. Il verde e il giallo chiaro della luce a gas, il tenero blu delle lampade ad arco, i rosso e l’arancio di altre, il rosso e il bianco delle lampade ad incandescenza e a filamento metallico. E poi, ancora, il rosso cupo e il verde dei segnali luminosi. Ogni strada offre nuovi quadri, nuovi contrasti.
La Hardenbergerstrasse. Silenziosa, grande appare la Handenbergstrasse. Solo la luce bluastra di due file di lampade ad arco la illuminano – una luce bianca, piena, mai interrotta dall’illuminazione violenta dei negozi. Le case, a destra e a sinistra, sembrano essersi ritirate nel buio, e gli alberi dei giardini sulla strada hanno uno strano aspetto, come mai durante il giorno. Sembrano montagne di muschio, dalla cui oscurità si innalzino cime verdi chiare. Queste nuvole di verde-scuro si stendono spettrali nel profondo dei giardini. Ma dove gli alberi si affacciano sulla strada e sporgono i loro rami sul marciapiede, brillano le forme disuguali delle loro foglie appuntite , trapunte di luce – un merletto lucente, affascinante nella sua ricca trama, nel movimento del suo disegno. E sul terreno risaltano le ombre delle foglie come reti fantastiche dai caldi toni. Quando piove, il quadro muta completamente. La strada si scurisce, la distesa grigio-chiara dell’asfalto diviene marrone-scura; le impurità della sua superficie riflettono con un bagliore le luci delle lanterne. L’aria è satura di fresca nebbia, e tutto il cielo sembra ricoperto di una fantastica coltre violetta.

La strada dei negozi. Nelle strade più strette la luce è diversa. Qui le strette fila di case rendono il buio palpabile. Qui le cime degli alberi avvolgono gli ultimi piani di ombre scintillanti, che la debole luce sembra sopraffare. Chiaro e asciutto è l’asfalto, senza riflessi. Solo le rotaie del tram scintillano. Ma sotto gli alberi, dove la luce delle lampade appese sul mezzo delle strade non può giungere, dai piani più bassi delle case, dalle lunghe file dei negozi irrompe un fitto intreccio di luci variopinte, così che le persone appaiono ombre nere. Le case oscillano nell’aria, e sotto di esse, come da fauci spalancate, zampillano rivoli di luce.

Una strada laterale. Una silenziosa strada laterale fa, in paragone, un effetto tetro. Mentre prima sembrava che la fila delle case si accompagnasse ad un corridoio di luce, ora invece la strada è tutta buia e le rare lampade a gas bruciano come in piccole gabbie, che sembrano scavare nell’aria. Esse creano intorno a sé un fievole alone, che basta a rischiarare appena pochi metri. Se ci si allontana di qualche passo, sembrano soltanto punti luminosi, mentre le fonti di luce più forti disegnano nell’aria grandi archi luminosi. E se noi entriamo in uno di questi archi, ci sentiamo sopraffatti da ogni parte dalla sua luce, prigionieri in uno spazio trasparente, eppure ben visibile. E’ suggestivo vedere le luci lontane, prigionieri di questo alone, vederle come attraverso un velo abbassato sugli occhi.

La Schlossstrasse a Dresda. Ho provato questa sensazione, una volta, a destra, in Schlossstrasse. La luce di molte lampade rosse riempie la strada, si inarca fino al terzo piano e raggiunge, in avanti, l’Altmarkt. Ma L’Altmarkt brilla di luci bluastre, come una debole musica che si insinua attraverso le rosse pareti circostanti. Naturalmente, questo effetto dipende dall’atmosfera. Nelle notti afose e polverose, le luci appaiono più piccole; dopo vento e pioggia, si ingigantiscono di colpo, i loro contorni quasi spariscono. E’ bello anche quando deboli lampade gettano la loro luce sulle altre pareti, creando così grandi campi di colore. Questo accadeva anche per la chiesa romanica, che ho già ricordato. Infatti, le strade che portano ad essa hanno tutte le luci ad arco e soltanto la piazza che la circonda è illuminata a gas. La chiara pietra calcarea risplende con riflessi verdi leggeri, e tutta la chiesa pare abbracciata da un buio mantello che la separa dalle strade affollate. E i campanili scompaiono, invisibili, nel profondo della notte che scende.

Sul canale. Ancora diversa è l’impressione che produce il canale, poco illuminato, racchiuso tra due argini, su ciascuno dei quali corre una strada con tre file di alberi. Le folte chiome impediscono il filtrare della luce. Le case silenziose si ergono buie nelle nubi d’ombra degli alberi. Le lanterne a gas sembrano punti luminosi, ai quali si accompagnano i fanali delle carrozze e delle automobili: una finissima, brillante rete di stelle distesa sulla scura massa dell’acqua. La liscia corrente è, infatti, tutta nera, e riflette al passante l’immagine silenziosa, spettrale della vita notturna. Meraviglioso è poi, per chi continua il cammino, l’apparizione improvvisa e maestosa del ponte di Potsdam tutto illuminato, colmo della sua vita straordinaria.

La strada come essere vivente. Se i veli dell’aria, del crepuscolo, delle luci artificiali fanno delle strade più misere forme e spettacoli meravigliosi, ai quali non pensava affatto chi costruì; se da linee diritte e spoglie nascono, grazie al gioco delle ombre e delle luci, forme mosse, agili, ricche; la presenza dell’uomo e delle vetture aggiunge a tutto ciò ancora un elemento, che rende queste forme silenziose un essere vivente, che si sveglia, lavora, si stanca, che si trasforma dal giorno feriale al festivo.

Gli uomini come natura. […] I vestiti delle donne […]Uomo e strada: “[…] L’uomo crea col suo corpo ciò che gli architetti ed artisti chiamano lo spazio, che è qualcosa di completamente diverso dallo spazio della matematica o anche da quella teoria delle conoscenza. Lo spazio architettonico-pittorico è musica, è ritmo, poiché impone definiti rapporti ai nostri movimenti, e così ci libera e abbraccia ad un tempo. Ma la strada come spazio architettonico è ancora oggi misera cosa. Aria e luce la migliorano, ma sono i passanti che la trasformano, la vivono, la allargano, la riempiono con il ritmo della cangiante vita dello spazio. […]

La vita dello spazio. E’ la vita dello spazio che dà, in occasioni come questa, un carattere così forte e significativo alla forma e ai colori, ed è difficile farsene una chiara idea. Chi pensa all’architettura, pensa di conseguenza agli elementi della costruzione, alle facciate, alle colonne, agli ornamenti – eppure, tutto ciò è secondario. Ciò che conta prima di tutto non è la singola forma, ma il suo contesto, lo spazio che la circonda, il vuoto che si stende aritmicamente tra i muri, e che da essi viene delimitato. Chi sa percepire lo spazio, le sue direzioni, la sua misura, chi sa cogliere la musica dei movimenti del vuoto, costui può accedere ad un mondo quasi sconosciuto, al mondo degli architetti e dei pittori.”
Nella metropoli, di cui Endell registra la perdita della struttura, delle relazioni tra architettura, strada e piazza, il paesaggio è indubbiamente costruito da una serie di ‘quadri impressionisti’, come dice Cacciari, dove lo spazio è uno spazio di colori e di riflessi, in cui individuiamo tuttavia anche elementi della cultura liberty, oltre che le radici della rappresentazione della città 'espressionista'. Notiamo, inoltre, l’assenza del flâneur, dell’operaio, del borghese, della folla, se non come 'forma e colore', come 'natura', e osserviamo come la perdita della ‘struttura’ sia in un certo senso sostituita da una vita caratterizzata dal ciclo giorno/notte; dalla reazione delle architetture alla interazione tra differenti condizioni atmosferiche e la luce naturale e quella artificiale; dalla progressiva assunzione di ruolo primario, nella vita urbana, della notte. La luce nella Berlino di Endell, segna il passaggio dal crepuscolo alla luce lunare, è la luce riflessa delle lampade a gas, della lampada ad arco, è una luce che non rappresenta ancora compiutamente il dominio dell’artificio sulla natura; è strumento di svelamento, di modellazione, non è appieno metafora di modernità e neppure ‘shock’.
 
Francesca Zanella
 

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