CITTÀ
A. Abruzzese, Il paesaggio del flâneur, in F. Zagari, Questo è paesaggio. 48 definizioni, Roma gruppo Moncosu editore 2006:
“Il paesaggio, in quanto spazio visibile che si apre alla vista, è alla sua origine […] un evento panico, un accadimento ancora non governato da memorie estetiche […] Nelle rappresentazioni tribali non c’è paesaggio ma vi sono le cose organiche e inorganiche del suolo e del cielo. Lo spazio è segnato dalla gestualità e dall’oralità, dal faccia a faccia. Il nomade e il raccoglitore non hanno di fronte paesaggi, si orientano dentro reti del sentire e non del vedere. Il passaggio alla stanzialità crea un dentro e un fuori dei luoghi. La distinzione tra vivere e vedere ne è conseguenza, così come tra vicino e lontano […] il paesaggio acquisisce allora la dimensione dello sguardo. Ma è comunque – e sempre resterà- non un luogo ma l’evento interiore del guardare e dell’essere guardati: il paesaggio è laddove ciò che ti è di fronte ti scopre, ti individua … E’ una doppia evocazione tra spettatore e scena. Il paesaggio resta a lungo natura non-umana, un magma vivente senza soggetto terreno e giustificato solo dal suo essere volontà del dio, ma anche dall’ospitare streghe e gnomi […] il paesaggio resta a lungo luogo di scoperta in termini di azione e fondale in termini di rappresentazione. […] solo il flâneur – […]- fonda il significato moderno del paesaggio. Ne stravolge per sempre la natura, lo sottrae ad ogni illusione di naturalità. Il flâneur è l’individuo metropolitano, ha dunque tutti i caratteri dello straniero, colui che viene da fuori per restare, colui che non ha luogo e non ha meta, ma passa. Colui che viaggia per creare immagini a uso e consumo delle merci da vedere nei suoi grandi empori. La metropoli tecnologizza l’esperienza del paesaggio e –nel suo doppio movimento centripeto e centrifugo, territoriale e metaterritoriale, materiale e immateriale – lo assorbe nella propria potente macchina comunicativa, capace di con-fondere internalità ed esternalità del mondo dentro l’economia politica e lo scambio simbolico di una stanza. L’espandersi dell’umano progredire in forme fisiche e immaginarie ha infine invaso e sconvolto ogni tipo di territorio. Il modo di vedere si è stratificato in mille piani di rappresentazioni, in in-finite cornici. Ma a sua volta la scena si è fatta ricca di senso rispetto allo spettatore, lo ha sorpassato, ridotto a rovina di sé. Le forme estetiche, in questo progressivo ribaltamento, non tengono più, il paesaggio si è dissolto come si sono dissolti gli strumenti del progetto, quindi non “progettazioni ma introiettazioni”
G. Amendola, La città postmoderna. Magie e paure della metropoli contemporanea, Roma-Bari, Laterza 1997: Il nuovo rinascimento urbano e il mito della città: “E’ proprio in questo scarto tra realtà e possibilità, tra l’essere e l’immagine, che nasce il richiamo della città e il suo fascino. Nasce e si rafforza l’altra città (ogni mito urbano si specchia nel proprio doppio) delle luci e degli eventi, dove la dimensione della possibilità prevale su quello della contingenza. Nell’altra città è possibile sdoppiarsi e proiettarsi; il doppio di sé che ciascuno costruisce diventa, sia pure temporaneamente, reale. I coatti e i borgatari a Roma o i banlieusards a Parigi si riversano in centro il sabato pomeriggio attratti dalla città e dal suo mito fatto di luci e di occasioni. Immersi nella fantasmagoria delle merci e delle immagini tentano con ingordigia e senza successo di consumare la città.” La città e l’iper-realtà “Il mito urbano è continuamente alimentato dal mondo dei media. Dal cinema, innanzitutto, che, forma d’arte e di racconto urbana per eccellenza, ha contribuito a costruire i miti di New York, San Francisco, Parigi, Berlino. Le ‘sinfonie urbane’ degli anni ’20 –Manhattan di Sheeler e Strand e Berlino di Ruttmann- ci danno un primo quadro cinematografico –consapevole- della città come immagine e come mito”
La città postmoderna: “Concetti, per esempio, come sovraccarico di stimoli, iper-realtà, cultura di superficie, estetizzazione del quotidiano, ironia delle forme sono diventati strumenti di uso corrente per significare realtà ed esperienze per molti aspetti inedite. Non a caso, inoltre, il campo di nascita o,forse meglio, di visibilità del postmoderno è stato la città o, più precisamente, l’architettura della città nuova”.
W. Schivelbusch, Nocturnal city, in Sens of the city. An alternate approach to urbanism, Lars Mueller pub. 2005:
“In all major cities of the world, the ebbing of the day brings a second world of light. This world is not the world of daylight, the world of a single light source, clear, friendly and legible. But neither is it the world of darkness – shadowed, mysterious, terryfying - loosened by the sunset upon men in the natural state. It is the world of man-made light sources the glittering dynamic glow o artificial illumination of the twentieth-century metropolis”.
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