Scegli la Lingua

Festival dell'architettura

Ti trovi in: Home page > Archivio Magazine > La scala della "città intelligente"

Rossella Ferorelli

La scala della "città intelligente"

Abitare lo spazio pubblico nella società delle Reti

 

Studi percettivi sull’esperienza di attraversamento delle highways urbane (da K. Lynch)

Studi percettivi sull’esperienza di attraversamento delle highways urbane (da K. Lynch)

 

Abstract

Al di là della dimensione puramente tecnocratica della prima generazione di progetti in materia di smart cities, e intendendo invece il settore di ricerca come complesso e crossdisciplinare, il lavoro cerca, su base storica, una interpretazione della natura e del ruolo dello spazio pubblico in questa compagine, drasticamente rinnovata dalle innovazioni tecnologiche fin nelle sue origini cognitive. Attraverso una disamina di esperienze seminali e critiche, se ne conclude che lo spazio pubblico della città intelligente è il luogo della collisione delle scale sociali, cognitive e percettive, e si apre a riflessioni future.


Article Text

L’origine e la fortuna del concetto di smart city si devono a quella che può ormai essere considerata una prima generazione di idee, nate in merito a una gestione più integrata di certi fenomeni urbani grazie ad alcune innovazioni tecnologiche sorte alla fine degli anni ‘90, orientate in particolare alla messa in rete di flussi di informazioni relative a produzione e consumo di energia, mobilità e monitoraggio ambientale [1].

Parallelamente a questo interesse, tuttavia, l’intero settore di sviluppo nato da quei primi approcci non ha potuto che raccogliere diffuso scetticismo, per la sua evidente tendenza a configurandosi come campo di investimento da parte delle più grandi corporate della tecnologia – soprattutto informatica – e a generare, di conseguenza, quantomeno certi orizzonti di opacità in merito ai possibili cortocircuiti tra interessi economici ed effettivi vantaggi sociali apportati da quei processi di ricerca [2].

A partire dalla seconda metà degli anni ’00, invece, l’ormai avvenuta maturazione della consapevolezza della profondità culturale degli effetti di quelle e di altre innovazioni tecnologiche, nel frattempo comparse e diffusesi globalmente, ha permesso che l’orizzonte di interesse della materia si ampliasse notevolmente [3], in particolare nella direzione del rapporto tra urbanità e rafforzamento delle reti sociali[1].

In questa sede, quindi, ci interessa soffermarci sull’osservazione di quegli effetti socio-spaziali, figli diretti dell’economia dell’informazione, la cui importanza per lo sviluppo degli studi urbani riteniamo tanto più radicale quanto più generalmente trascurata dalla letteratura sulle smart cities, pur costituendone, a nostro avviso, la natura più profonda, le cui radici arrivano a coinvolgere l’origine del senso di cittadinanza fin nelle sfere cognitive della società [4].

In tal senso, in alternativa al concentrarsi sulle smart cities progettate come tali in maniera eterodiretta, si sceglie di analizzare quali siano gli effetti “spontanei” che quelle stesse rivoluzioni tecnologiche che le hanno prodotte esplicano indirettamente sulle pratiche sociali di utilizzo – e quindi sul progetto – degli spazi urbani di nuova generazione.

Perciò, poiché le trasformazioni cognitive, filosofiche, tecnologiche e sociali in atto stanno minando alla base i fondamenti sui quali i criteri classici di “pubblico” e “privato” sono radicati e sui quali la costruzione dell’ambiente urbano edificato si è finora basata, si sceglie come campo di indagine lo spazio pubblico contemporaneo, in quanto ambito la cui identità è sottoposta all’evoluzione più critica e pone i quesiti più radicali.

Quale spazio pubblico per la città intelligente?

Con il termine “spazio pubblico” intendiamo qui riferirci non tanto – o non solo – a una sommatoria di spazi urbani più o meno dichiaratamente dedicati all’aggregazione fisica e all’interazione sociale, né tra quelli classicamente codificati (quali piazze, parchi, boulevard, eccetera) né tra i meno tipologicamente distinguibili. Ci interessa un concetto di spazio pubblico più vasto e simbolico, inteso come totalità del campo entro il quale si giocano le relazioni della forma e della vita urbana, struttura e contenuto della rappresentazione della città a se stessa, arena in cui è possibile coniare definizioni analitiche del carattere dell’urbanità in un’epoca determinata. A tale scopo, sembra particolarmente appropriato ereditare il metodo da Françoise Choay, che utilizza in maniera estremamente efficace quattro immagini riassuntive per quattro lunghe fasi dello sviluppo urbano europeo, all’interno della cui descrizione rientrano coerentemente i caratteri salienti di ognuna ed emerge con tagliente chiarezza un’interpretazione dell’identità dello spazio – soprattutto inteso come pubblico – che le appartiene [5]. Si delinea così la successione dello “spazio di contatto” medievale, caratterizzato da una fusione inscindibile di spazio domestico, produttivo e pubblico, immerso in un macrocosmo culturale magico-mistico; dello “spazio scenico” classico, dominato dallo sguardo laico-geometrico; dello “spazio di circolazione” moderno, della metropoli disunita, governata dall’automobile e dal capitale; dello “spazio di connessione” contemporaneo, che funziona alla scala globale.

Di recente[2], poi, la storica non fa mistero di aver sottovalutato il rapporto tra i termini puramente spaziali coi quali quadripartisce la storia della città e le rivoluzioni culturali che provocano i passaggi da una fase all’altra di tale storia. Nella fattispecie, la rivoluzione a dominante epistemica del Rinascimento fa evolvere lo spazio medievale in classico; la Rivoluzione Industriale porta quest’ultimo al moderno; ed è quella che ella chiama “rivoluzione elettro-telematica, a dominante tecnica”, e che oggi conosciamo più correntemente come “rivoluzione informatica”, a preludere alla città che ruota intorno allo spazio di connessione. Per ragioni anagrafiche, Choay non può che abbozzare a questa descrizione, che può essere portata a compimento solo da chi ha la possibilità di analizzarne adeguatamente l’evoluzione durante il suo farsi.

Come si abita, allora, lo spazio di connessione, spina dorsale della città intelligente?

Già dalla metà degli anni ’60, l’approccio percettivo di Kevin Lynch arriva a riconoscere il legame inscindibile tra mediatizzazione dell’esperienza dello spazio costruito ed estensione del sé[3], osservando che la sensazione di inadeguatezza e disagio che si ottiene quando si esperisce una dimensione spaziale scalarmente molto vasta, incomparabile con il corpo umano, non sussiste invece attraversando il medesimo spazio in automobile; e che ciò è conseguenza dell’amplificazione della velocità e del controllo del movimento, tale da sconfiggere la relazione fisica di scala e a generare una sensazione di padronanza, limitata solo dalla contemporanea deprivazione sensoriale prodotta dalla vettura [6].

[img01]

Quello della velocità, ovvero del rapporto tra spazio, attraversamento e tempo, sarà un concetto protagonista delle teorie spaziali urbane per ancora un ventennio [7], fino a quando la telematica lascerà il passo all’informatica, alla diffusione del personal computer e all’avvento di internet, con la nascita della cultura cyberpunk e l’esasperazione della divisione tra realtà fisica e realtà virtuale-digitale[4].

[img02]

Solo pochi, sensibili osservatori saranno in grado di comprendere, prima del passaggio di millennio, che il progresso tecnologico sarà destinato a riaccostare, e non a dissociare, l’uomo dallo spazio fisico attraverso l’informazione, e che ciò avverrà attraverso l’espansione delle facoltà percettive [8] nella stessa direzione di dominio spaziale che Lynch aveva presagito.

Sarà infatti a partire dalla seconda metà degli anni ’00 che la cesura fisico-digitale verrà rimarginata, grazie alla diffusione civile delle tecnologie satellitari, con la conseguente possibilità di georeferenziazione libera di dati relativi al territorio e la contemporanea propagazione di massa dei dispositivi di localizzazione portatile (locative media). La rete diventa progressivamente un ambiente location-aware, ovvero la sua dimensione immateriale si sviluppa come un campo di informazione spazializzata, modificando biunivocamente le pratiche d’uso degli spazi fisici coinvolti nel processo [9]. Presso un pubblico ineditamente vasto si diffonde al contempo una cultura topografica basata sulla consapevolezza di essere costantemente dotati della possibilità “cybercettiva” [8] di guardarsi dall’alto attraverso l’occhio tecnologico del satellite, dotato al contempo di zoom e grandangolo pressoché illimitati.

Il portato culturale di questa innovazione comincia ad essere chiaro allorché emerge un nuovo immaginario geografico dall’alto e compaiono i primi segni di questa novità nell’uso (civile e militare) dei droni, in alcune opere di landart e persino in alcuni controversi interventi insediativi come le Palm Islands del Golfo Persico.

[img03]

[img04]

Paragonando le osservazioni di Lynch precedentemente richiamate al potenziale cognitivo di un’espansione ottica infinita, diventa evidente il processo di knowledge empowerment del cittadino che, di fronte alla necessità di orientarsi nello spazio pubblico urbano, possa avere accesso completo a facoltà sensoriali incomparabilmente aumentate e a banche dati georeferenziate costruite dal basso e implementabili liberamente.

Esperienze seminali e critiche

Come di consueto tra le avanguardie, dato il carattere politicamente critico dei suddetti incrementi di possibilità e, al contempo, date la rapidità e la transitorietà dei fenomeni che li riguardano, all’inizio degli anni 2000 il campo è stato esplorato principalmente nell’ambito di esperienze artistiche e di attivismo critico-sociale, numerose, variegate e sempre legate a doppio filo con le discipline del progetto e con le scienze urbane e del territorio, a tutte le scale. Solo di recente sono comparsi alcuni, seminali tentativi di portare le tecnologie legate all’informazione digitale all’interno del progetto urbano, certi dei quali sembrano indirizzarsi verso risultati coerenti con l’interpretazione storica e socio-spaziale cui questa ricerca è dedicata.

Ragionando per grandi temi, è possibile osservare che sussiste un chiaro avvicinamento biunivoco tra progetti dedicati alla spazializzazione dell’informazione (relativi a prodotti immateriali come software, app, locative media) e progetti dedicati alla informatizzazione dello spazio (progetti cioè di spazi pubblici urbani nei quali l’informazione ha un ruolo centrale), ma che tale biunivocità non è ancora del tutto risolta in metodologie mature.

Spazializzazione dell’informazione

Dal punto di vista della produzione di informazione spazializzata, il campo delle esperienze è, come si è detto, assai vasto, disciplinarmente contaminato e spesso portatore di contenuti permeati da forte critica sociale. A una scala vasta, concetti come quelli di geopolitica e cittadinanza si scontrano sempre più spesso in modo critico con elementi spaziali come quello di confine e, interrogati dalla tecnologia, generano esperimenti controversi e transdisciplinari intorno al tema della sorveglianza[5].

[img05]

Anche alla scala urbana, tra i temi di sperimentazione più interessanti c’è sicuramente quella del geofencing, ovvero della possibilità di creazione di recinti immateriali, georeferenziati intorno a luoghi fisici. Con il continuo progresso della ricerca tecnologica satellitare e il conseguente aumento della precisione degli strumenti di localizzazione diffusi sul mercato, varie applicazioni[6] permettono la creazione di attività di interazione con gli ambiti urbani che appunto rimettono in discussione il concetto di soglia con conseguenze biopolitiche importanti legate ai temi dell’accesso, delle libertà di movimento e dei rischi legati all’apertura di nuovi canali di aggressione da parte di interessi privati all’interno della fruizione della sfera pubblica urbana [11].

[img06]

Ancora di diverso tipo sono le applicazioni portatili basate sulla georeferenziazione il cui utilizzo restituisce alla collettività dati altrimenti impossibili da raccogliere. Una di esse è Livehoods[7], che analizza dati provenienti dai principali social network per tracciare i contorni di aree urbane definite omogenee in base a usi prevalenti, generando letture delle dinamiche cittadine spontanee, che restituiscono risultati di tipo diverso rispetto alla ripartizione tradizionale, basata in maniera eterodiretta sulla divisione in quartieri.

[img07]

Un ulteriore caso di notevole interesse, da questo punto di vista, è costituito dall’importanza che lo strumento della mappatura georiferita ricopre all’interno delle pratiche di ricerca e intervento in materia di riuso del patrimonio edilizio abbandonato che si sono moltiplicate negli ultimi anni, soprattutto nel nostro paese [12]. In tali esperienze, l’utilizzo di mappature crowd-sourced fondate sui locative media risulta imprescindibile all’attivazione delle dinamiche pubblico-private di reinserimento del patrimonio dismesso nel mercato immobiliare e nell’immaginario collettivo, poiché l’approccio ai fenomeni di abbandono verificatisi a valle della crisi economica globale risulta particolarmente difficile proprio a causa del loro carattere polverizzato, incontrollabile tramite i tradizionali strumenti di censimento, che dunque genera importanti deficit conoscitivi iniziali [12]. In tal senso, particolarmente i geo-social media (ovvero i social media che utilizzano georeferenziazione delle informazioni prodotte dagli utenti) permettono, oltre alla localizzazione iniziale dei beni, l’accumulazione dal basso di informazioni multimediali relative ad essi, generando una iniziale riconnessione tra i tessuti abbandonati e la loro storia sociale (o la creazione di una nuova), che si è dimostrata in più casi il motore imprescindibile dei successivi interventi sugli immobili e sui brani di paesaggio coinvolti [9].

[img08]

Informatizzazione dello spazio

Dal punto di vista della produzione di progetti spaziali integrati con l’informazione, lo stato dell’arte si presenta, come su detto, ancora estremamente magmatico, per via del sostanziale scollamento tra i tempi di evoluzione (e quindi di obsolescenza funzionale) della tecnologia e quelli dell’architettura. Per questo motivo, in una fase di inarrestabile corsa verso la maturazione di questo rapporto tra spazio fisico e informazione digitale com’è quella che caratterizza l’ultimo decennio di sperimentazioni, i risultati più interessanti vengono realizzati all’interno di strutture temporanee, o finiscono inevitabilmente per orientare verso la transitorietà le scelte dei progettisti impegnati nella ricerca lungo queste frontiere.

Tra i collettivi che più precocemente e più a lungo hanno realizzato studi ed esperimenti in questa direzione c’è senza dubbio Hackitectura.net, attivo con continuità nell’area di Siviglia dal 2003 al 2011. Vari dei loro primi lavori, tra cui “Cartuja Beta Rave” e “Fadaiat 2004”[8] costituiscono tentativi di rendere transcalare e translocale la dimensione dello spazio pubblico, realizzati attraverso un’installazione spaziale e le tecnologie satellitari allora disponibili[9] [13]. Concettualmente simili al progetto teorico per una “Global Village Square” elaborato nel 2000 da Derrick De Kerckhove [14], questi lavori propongono una visione dello spazio pubblico come porta per un contemporaneo altrove, dunque come dispositivo mentale atto a rendere percettibile l’appartenenza del vivere contemporaneo a tutte le scale, dall’intima alla globale.

A partire da questa generazione seminale di lavori, insomma, lo spazio pubblico comincia a configurarsi come hub, hotspot, ovvero come ambito nel quale è garantito un nuovo diritto proprio del cittadino, non più soltanto quello del libero accesso dal di fuori allo spazio stesso (nel classico concetto di accessibilità), ma accesso dallo spazio stesso alla totalità dell’informazione globale disponibile (caratteristica per la quale si propone il neologismo di “accessività” [9]).

Oggi tale tendenza si va concretizzando in un progressivo affinamento del progetto integrato della dotazione di postazioni dotate di collegamenti elettrici e wi-fi all’interno degli spazi pubblici urbani. I casi delle “isole digitali” realizzate a Milano in occasione di Expo e, ancora maggiormente, del progetto di Guidarini e Salvadeo + Snark per la riqualificazione di piazza Castello, sono emblematici di una presa di consapevolezza della necessità di riconcettualizzare l’arredo urbano “accessivo” come dispositivo cardinale per la progettazione dello spazio pubblico contemporaneo.

[img09]

[img10]

[img11]

Dal confronto tra queste realizzazioni di spazi fisici informatizzati, certo di carattere meno teoricamente impegnato ma che rispondono a nuovi bisogni quotidiani delle popolazioni metropolitane, con le esperienze di informazione spazializzata precedentemente descritte, è possibile trarre alcune osservazioni.

Come suddetto, la produzione di spazi pubblici “accessivi”, ovvero che forniscono accesso all’informazione a scala globale, ha significato, fino ad oggi, progettare spazialità il cui carattere (per quanto fisico) è de-localizzante, poiché essi forniscono accesso per il permanente altrove della globalità.

Al contrario, pur nelle loro varie forme, i dispositivi che lavorano sul software georeferenziato condividono il generale obiettivo di potenziare il senso del qui, fornendo ulteriori facoltà sensoriali e cognitive relativamente al luogo e al momento in cui ci si trova (tipicamente, per meglio orientarvisi o per ottenere informazioni specifiche sulle caratteristiche del luogo). Si tratta del processo di aumentazione[10] reciproca di spazio fisico e network descritto per la prima volta da Lev Manovich nel 2005 [15] e base teorica di un’ulteriore branca tecnologica nota, appunto, come Realtà Aumentata (AR)[11].

[img12]

Sembra dunque lecito domandarsi se questa dicotomia di approcci sia destinata o meno a risolversi in esperienze sintetiche e se sia proprio la realtà aumentata (opportunamente sviluppata al di là dei risultati solamente iniziali cui è approdata, ad oggi, la ricerca[12]) l’anello mancante di questo a lungo sospirato ricongiungimento.

Conclusioni

Nonostante le fragilità insite nelle prime applicazioni di queste innovazioni all’ambito urbano, non temiamo di cedere a un azzardo osservandone la sincronicità con la svolta culturale subita dal concetto di smart city, accennata in precedenza. Oggi, infatti, è possibile affermare che la struttura delle smart cities si basa sull’insieme di tre ordini di dispositivi culturali:

- location-aware information: internet georeferenziato e portatile;

- information-aware locations: ovvero sensible environments, cioè spazi che producono informazioni per grazia dell’implementazione di tecnologie sensoristiche;

- reti sociali potenziate dalla dimensione online, quali nuovi campi di possibile sperimentazione per l’innovazione sociale.

Per questo motivo, anche in attesa della maturazione teorica e pratica delle questioni esposte, sembra possibile affermare che lo spazio della vita pubblica della città intelligente è un luogo caratterizzato dalla collisione e dalla compresenza di tutte le possibili scale spaziali (dalla globale alla iper-locale), delle dimensioni sociali (dalla più intima e privata alla più pubblica e ufficiale) e delle possibilità cognitive (grazie alla possibilità – forse illusoria[13] [10] – di poter modulare costantemente l’accesso alla conoscenza dei dati su ciò che ci circonda).

Lo spazio pubblico di oggi, è quello nel quale, attraverso l’informazione, percepiamo attivamente il cambiamento epocale nel quale siamo immersi.



Bibliografia

[1] Harrison C., Eckman B., Hamilton R., Hartswick P., Kalagnanam J., Paraszczak J., Williams P. (2012) Foundations for smarter cities. IBM Journal of Research and Development, 54:1-16

[2] Söderström o., Paasche T., Klauser F. (2014) Smart cities as corporate storytelling, in City, vol. 18, n. 3, 307 –320

[3] Batty M., Axhausen K., Giannotti F., Pozdnoukhov A., Bazzani A., Wachowicz M., Ouzounis G., Portugali Y. (2012) Smart Cities of the Future, in UCL Working Paper Series, n. 188, ISSN 1467-1298

[4] Moulier Boutang Y., (2010) Mutation in Contemporary Urban Space and the Cognitive Turning Point of Capitalism in Hauptmann D., Neidich W. (2010) Cognitive Architecture. From Biopolitics to Noopolitics. Architecture & Mind in the Age of Communication and Information, Nai, Rotterdam

[5] Choay F. (1970) Espacements. L'évolution de l'espace urbain en France. Milano. Skira.

[6] Lynch, K., et al. (1964) The view from the road, p 13. Cambridge. Mit Press.

[7] Virilio P. (1984) L’espace critique. Parigi. Bourgois Editeur.

[8] Ascott, R. (1995) The Architecture of Cyberception. In Toy, M. (Ed) Architects in Cyberspace. Pp. 38–41. London. Academy Editions.

[9] Cariello, A., Ferorelli, R. (2013) Urban hacktivism e locative media. Strategie di riappropriazione dei paesaggi dell’abbandono. In: Vitellio, I. (Ed.) “Città Open Source. Spazio pubblico, Network, Innovazione Sociale”. Urbanistica Dossier Online (6). INU Edizioni. ISBN 9788876031014

[10] de Souza e Silva A., Frith J. (2010) Locational Privacy in Public Spaces: Media Discourses on Location-Aware Mobile Technologies in Communication, Culture & Critique n 3, 2010 ISSN 1753-9129

[11] Cariello, A., Ferorelli, R. (2013) Spazi pubblici in rete l’accesso come indicatore di rischi e opportunità del geosocial networking per la dimensione urbana. Atti della XVI Conferenza nazionale della Società Italiana degli Urbanisti, Urbanistica per una diversa crescita, Napoli, Maggio 9-10, 2013, in “Planum. The Journal of Urbanism”, no. 27, vol.2 (2013). ISSN 1723-0993

[12] Ferorelli, R. et al. (2014) Le reti sull'abbandono: mappature, progetti, pratiche per un riuso dal basso, in Filpa, A. Lenzi, S. “Riutilizziamo l'Italia. Land transformation in Italia e nel mondo: fermare il consumo del suolo, salvare la natura e riqualificare la città, Report WWF 2014”. ISBN 9788890662942

[13] Pérez de Lama, J. (2009) Public Space and Electronic Flows. Some Experiences by Hackitectura.net, in “Inclusiva-net #2. Digital Networks and Physical Space. Texts of the 2nd Inclusiva-net Platform Meeting March 3 - 14, 2008. Directed by Juan Martín Prada Medialab-Prado in Madrid”. Área de Las Artes. Madrid. ISSN 2171-8091

[14] de Kerckhove, D. (2000) L’architettura dell’intelligenza. Roma. Testo&Immagine.

[15] Manovich (2005) The Poetics of Augmented Space Vol. In: “Visual communication”. Vol. 5 (2), pp. 219-240. London. SAGE.



[1] Si osservi, a tal proposito, la proliferazione di finanziamenti recentemente erogati dall’Unione Europea per la realizzazione di progetti di innovazione sociale nell’ambito degli assi di finanziamento per le smart cities. Tra i più recenti, in Italia, si registra il bando erogato dal MIUR e intitolato “Smart Cities and Communities and Social Innovation”, i cui esiti sono consultabili al seguente link: http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/web/ricerca/smart-cities-and-communities-and-social-innovation (ultima visualizzazione: 29 gennaio 15)

[2] In particolare, nell’introduzione alla riedizione italiana di Espacements del 2003, a cura di Ernesto D’Alfonso, per i tipi Skira.

[3] Giova sottolineare la concomitanza di queste riflessioni con la pubblicazione dei più importanti studi di Marshall McLuhan, e in particolare di Understanding Media (1964).

[4] Celebrata più attraverso le arti che le scienze, e soprattutto in ambienti culturali underground, la dicotomia reale/virtule trova nel romanzo Neuromancer di William Gibson uno dei primi e più efficaci ritratti che avrebbero relegato il cyberspazio alla dimensione di pura metafora spaziale fino alla successiva generazione tecnologica.

[5] È ad esempio il caso del “Transborder Immigrant Tool” , strumento realizzato dal collettivo b.a.n.g. lab che utilizza l’occhio “cybercettivo” del gps, applicato a telefoni cellulari anche di non ultima generazione, per agevolare l’interpretazione del territorio desertico che costituisce il confine tra Messico e South California da parte dei migranti irregolari, per tentare di evitarne i numerosi decessi per sete durante gli espatri clandestini.

[6] Si veda il caso di “MapAttack”, app a carattere ludico, che realizza un gioco a squadre, basato sull’uso di geofence, da giocarsi nel tessuto urbano: https://geoloqi.com/blog/2011/09/building-a-real-time-location-based-urban-geofencing-game-with-socket-io-redis-node-js-and-sinatra-synchrony/ (ultimo accesso: 3 maggio 2015)

[7] http://livehoods.org/ (ultimo accesso: 3 maggio 2015)

[8] La piattaforma wiki originale di resoconto delle iniziative si trova all’indirizzo http://mcs.hackitectura.net/tiki-index.php (ultimo accesso 3 maggio 2015), mentre il sito web più recente, nel formato blog è: http://hackitectura.net/blog/ (ultimo accesso 3 maggio 2015)

[9] Entrambi gli esperimenti si basano sul tentativo di connessione di due spazi distanti (appartenenti a nazioni differenti) attraverso il reciproco collegamento video-satellitare, che permetteva di visualizzare in uno spazio ciò che accadeva nell’altro, in tempo reale, intrecciando un programma di attività contemporanee e congiunte.

[10] Come traduzione dell’inglese augmentation.

[11] Definibile genericamente come esperienza sensoriale e cognitiva espansa per via tecnologica, la realtà aumentata viene oggi applicata sperimentalmente alla dimensione urbana attraverso sovrapposizioni, su particolari visuali urbane, di layer di informazione audiovisuale, fruiti attraverso comuni dispositivi mobili. Si segnala ad esempio l’esperienza di arte urbana aumentata di Re+Public, di cui un efficace videoracconto è disponibile al seguente indirizzo: https://vimeo.com/55893458 (ultimo accesso: 4 maggio 2015)

[12] Ad oggi, le applicazioni che fanno uso di AR utilizzano obiettivi fotografici digitali che, al momento di inquadrare immagini che per il dispositivo risultano “riconoscibili” (che esistono cioè nella sua memoria), restituiscono il contenuto (di immagini, video, ecc.) desiderato. Perché ciò accada all’atto di inquadrare elementi del tessuto urbano, in essi è necessario che essi vengano equipaggiati con dei marker (tipicamente QR code, codici a barre, o simili) o che essi stessi vengano riconosciuti come tali (come nel caso delle opere di street art del precedentemente citato Re+Public). Solo quando i dispositivi ottici saranno in grado di associare dati direttamente alle visuali urbane inquadrate, si potrà ipotizzare una realistica applicazione a vasta scala della tecnologia AR.

[13] Allo stesso tempo, l’accesso a informazioni e facoltà aumentate sta aprendo a problematiche relative alla privacy cui qui è possibile solo accennare. Si fa riferimento in ogni caso, ad esempio a Adriana de Souza e Silva & Jordan Frith, Locational Privacy in Public Spaces: Media Discourses on Location-Aware Mobile Technologies.


Rossella Ferorelli. Ingegnere Edile-Architetto, dottoranda in Progettazione Architettonica e Urbana presso il Politecnico di Milano con Luca Molinari, con una tesi sulla ridefinizione dei concetti di infrastruttura e spazio pubblico in relazione agli effetti socio-spaziali della diffusione dell’informazione location-aware. Ricerca intorno all’evoluzione delle interazioni tra reti di informazione, biopolitica e ambiente costruito e ai mutamenti nelle forme di comunicazione, rappresentazione e critica dell’architettura sul web. Collabora con riviste come Domus e Abitare.
Raffronto tra due frame del film “Nirvana” G. Salvatores, 1997), espressamente ispirato a Neuromancer, di W. Gibson. Sono evidenti le ricostruzioni del cyberspazio, basate su “metafore” spaziali (corridoi, porte) e, contemporaneamente, sulla necessità di alienarsi del tutto dallo spazio fisico - ZOOM

Raffronto tra due frame del film “Nirvana” G. Salvatores, 1997), espressamente ispirato a Neuromancer, di W. Gibson. Sono evidenti le ricostruzioni del cyberspazio, basate su “metafore” spaziali (corridoi, porte) e, contemporaneamente, sulla necessità di alienarsi del tutto dallo spazio fisico