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Luca Cardani

John Hejduk: l'architettura e la sua idea

"It's not just building per se. It's building worlds"

John Hejduk con Antonio Sanmartìn, Elena Cànovas Mendez e Leonardo Rietti, Torres Hejduk, Santiago de Compostela, 2001-03 (Foto dell'autore)

John Hejduk con Antonio Sanmartìn, Elena Cànovas Mendez e Leonardo Rietti, Torres Hejduk, Santiago de Compostela, 2001-03 (Foto dell'autore)

Abstract
L’architettura per Hejduk è la forma di un pensiero sul mondo, che si manifesta nella realtà concreta. La missione dell’architetto è trovare le forme autentiche del proprio tempo attraverso la rifondazione dei suoi programmi, svolgendo il compito proprio di tutta l’arte: osservare l’intero mondo e offrirne una visione per il futuro. Questo scritto rappresenta il tentativo di delineare un pensiero unitario sul senso dell’architettura di Hejduk. Un’idea sotterranea che ha alimentato le fasi della sua carriera architettonica, intrecciando tra loro, sotto il tetto dell’impegno civile, la passione per la trasmissibilità della conoscenza dell’educatore, all’esaltazione delle implicazioni soggettive dell’artista-architetto.


«Art, be it painting, literature or architecture, is the remaining shell of thought. Actual thought is of no substance. We cannot actually see thought, we can only see its remains. Thought manifest itself by its shucking or shedding of itself; it is beyond its confinement»
John Hejduk, ‘Evening in Llano’1

Con questa potente metafora John Hejduk racconta il valore e il senso che attribuisce all’architettura.
Le architetture sono gusci che custodiscono i pensieri dell’uomo sul mondo, conchiglie cariche di vissuto, che raccontano la vita anche dopo che il pensiero le ha abbandonate; ricche di senso proprio perché se ne riconosce il valore attraverso quel che resta.
Il pensiero è la facoltà umana attraverso cui si prende coscienza di sé nei confronti della realtà. In questo senso dunque l’architettura è il risultato di un processo conoscitivo, uno dei modi attraverso cui il pensiero prende forma, si manifesta e acquista così una presenza, una trasmissibilità e un valore di testimonianza che produce cultura.
Uno dei verbi più utilizzati da Hejduk nei suoi discorsi sull’architettura è appunto to gather/gather up, un verbo che può assumere molti significati2, ma che in senso generale vuol dire proprio raccogliere, accumulare e collezionare conoscenza. Raccogliere i pensieri sul mondo per tramandarli attraverso la forma; per questo ogni pezzo di architettura rappresenta e costruisce un pezzo della conoscenza del mondo, ne è testimone.
Su questo credo si fonda l’idea di architettura e di insegnamento del preside della Cooper Union, che proviene dall’esperienza come giovane insegnante a metà degli anni ‘50 alla Scuola di Architettura di Austin, assieme ai colleghi Hoesli, Rowe, Slutsky, con i quali condivide appunto l’idea che: «Qualsiasi programma educativo di una scuola di architettura non può esser basato sulla meccanica dell’occupazione professionale, ma solo sul contenuto intellettuale dell’architettura»3.
Il “contenuto intellettuale dell’architettura” è l’essenza del programma architettonico, la concezione della sua idea come momento fondativo del progetto che riguarda l’interrogazione sul significato di ciò che si deve costruire, in relazione alle istanze della propria epoca e della società, rimarcando dunque come il giudizio guidi l’interrelazione tra finalità e strumenti, saldando tra loro la dimensione etica e quella estetica del lavoro.
L’architettura nasce dall’esperienza, dal mondo della vita, per trasformare in qualcosa di concreto la struttura di bisogni e desideri dell’uomo; un pensiero che deve molto al contributo della filosofia americana del primo ‘900, allo strumentalismo di Dewey secondo cui l’architettura ha il compito di influenzare il futuro e ricordare il passato, «le cose per cui gli uomini hanno sperato e lottato, quello che hanno ottenuto e sofferto»4.
Riferirsi all’esperienza per tradurla in architettura significa dunque porsi come campo di indagine e fine la realtà.
In un saggio intitolato The Flatness of depth, guardando all’opera di Mondrian come paradigma dell’attività artistica, Hejduk scrive: «Reality is conceived, reality is represented, reality is realized. All are one and the same thing»5; concezione, rappresentazione e realizzazione sono per l’autore tre passaggi del progetto necessari e inseparabili, che affermano il realismo del lavoro dell’artista, la necessità di partire dalla critica della realtà, e porsi come fine la costruzione della realtà stessa, una realtà architettonica che ancora non c’è ma che inizia a preformarsi nel suo rapporto con l’immaginazione, come spiega qualche paragrafo più avanti: «...an architect has an architectural image inside his mind’s eye. (...) There may be a series of images one after the other over a period of time, but that period of time, no matter how small, is a necessary ingredient for the evolution toward totality. It must be understood that so-called total architecture is ultimately made up of parts and fragments and fabrication»6.
Nell’immaginazione si imprimono immagini e frammenti di cose e oggetti del vissuto, conservate dalla propria memoria, che vengono ricomposte per fabbricare la rappresentazione di un’idea.
Uno dei maggiori contributi di Hejduk viene proprio dal suo modo di pensare all’architettura attraverso un pensiero analogico che introduce nuovi significati all’interno della propria architettura, attraverso la capacità dell’immaginazione di creare nessi tra cose differenti, in cerca di una sintesi formale.

Ma come avviene il passaggio dalla concezione alla rappresentazione e poi alla sua realizzazione? Come si passa dall’idea alla sua forma rappresentativa?
Questo passaggio per l’architetto-insegnante Hejduk è affidato in gran parte alle capacità poetiche del soggetto, per non dire al suo talento, ma non si esaurisce con esso, perché la “corrispondenza” delle forme necessita del metodo progettuale, di una logica dei passaggi compositivi in vista del fine da ottenere. Della ricerca di un metodo è testimonianza la sua stessa opera come fa notare a premessa della sua prima esposizione ospitata all’interno di Maison La Roche dalla Fondation Le Corbusier nel 1972: «I progetti seguenti sono il risultato di uno sforzo di 20 anni sulla ricerca dei principi della forma e dello spazio», nel tentativo di stabilire attraverso l’analisi e il progetto un punto di vista sull’architettura, «attraverso l’autoimposizione di una disciplina, attraverso un intenso studio del contenuto, attraverso un’estetica»7.
Questo metodo viene sperimentato con gli studenti alla Cooper Union, la cui pedagogia si fonda sull’analisi della composizione di alcune grandi opere del mondo dell’arte, per estrarre da esse una serie di principi di base, e sul progetto come sperimentazione delle questioni teoriche emerse8. Una vera e propria “educazione formale” che necessita di una intensa capacità critica dello studente, e si sviluppa attraverso un doppio movimento di estrazione dei significati dalle forme nella fase analitica e attraverso il riempirsi delle forme con questi significati in quella pratica. Il progetto è il risultato di una speculazione teorica che si svolge progettando, cioè acquistando consapevolezza delle decisioni prese con le mosse della composizione e delle loro conseguenze rispetto al fine, in un continuo movimento dialettico, per cui: «se l’evoluzione della forma continua o si ferma dipende dall’uso dell’intelletto, non come strumento accademico, ma come un elemento appassionato e vivente (…) Al fine di avere dei principi a priori ricchi di significato, e prender la via della rivelazione totale, che dovrebbe esserci nella forma ottenuta»9.
La finalità dell’architettura è dunque la trasmissione di un significato, raggiunta attraverso la sua capacità di emozionare, cioè trasportare fuori di noi il nostro spirito facendolo incontrare con il pensiero espresso nell’opera, generando una rivelazione. Incontrando nell’opera un pensiero lo riconosciamo, riconosciamo un’idea che diventa nostra, parte della nostra cultura, ma per far si che ciò avvenga le forme per Hejduk devono raggiungere con la precisione del linguaggio l’espressività del pensiero che le ha generate, perché: «l’intelletto stesso è qualcosa di tattile, tangibile, una cosa sensuale, e, se riesci a catturarlo nelle forme, hai a che fare con qualcosa che respira, che non è morto. Molta architettura oggi è priva di vita perché non è capace di fare questo»10.
«The fundamental issue of architecture is that does it affect the spirit, or doesn’t it? If it doesn’t affect the spirit, it’s a building. If it affects the spirit, it’s architecture»11 .
Questo spirito è costituito dai valori di un’epoca e alla rappresentazione di questo spirito deve tendere l’architettura, perché sia più della sua funzione pratica, perché superi la semplice costruzione e diventi un supporto per raccontare la vita degli uomini. Questo è il tentativo sviluppato in maniera esplicita attraverso la serie di opere denominate Masques12: trovare le maschere/forme per il proprio tempo attraverso la ricerca dell’autenticità dei programmi13, concentrandosi dunque sulla questione del carattere in architettura, del rapporto tra la forma e la sua destinazione.
Hejduk lega attraverso una analogia la città e i Masques 14, perché intende il teatro come mezzo per dare regole alla società, per dare un ruolo, una maschera a ciascuno, all’interno della città che è spazio scenico, luogo delle relazioni con l’architettura15. Ogni architettura rappresenta un carattere, un personaggio, uno per ogni abitante, per ogni istituzione, e questi caratteri messi assieme compongono il carattere dell’urbanità, utilizzando la narrazione come mezzo per “far conoscere” il significato della città attraverso il racconto delle sue architetture.
Per rappresentare il tema di ogni edificio Hejduk parte dal valore della sua funzione, come espressione del legame tra la vita e l’architettura, e immagina una città composta di architetture rappresentative di questo rapporto tra l’oggetto architettonico e il soggetto abitante.
In questa città teatro noi facciamo esperienza del “contratto sociale” che la regola attraverso il ruolo e le relazioni che le architetture stabiliscono tra di loro, attraverso la manifestazione del loro carattere.
Hejduk con questa “compagnia di architetture” fornisce un archivio di prototipi rappresentativi dei temi dell’architettura capaci «di fornire il codice genetico di tutte le costruzioni di tutte le possibili città future»16; dei canovacci per ogni edificio, come personaggi in cerca d’autore pronti a salire sul palco della città e recitar la loro parte. Il valore dei Masque consiste proprio nel riportare la questione dell’architettura al suo principio generativo: cosa un’architettura è, quale è il suo significato e quale la forma che lo rappresenta, rifondandone ogni volta il senso, attraverso un racconto sul destino della città.

«I cannot do a building without building a new repertoire of characters of stories of language and it’s all parallel. It’s not just building per se. It’s building worlds»17
L’architettura come disciplina per la costruzione del mondo, ecco l’insegnamento dell’opera di Hejduk come educatore e artista. L’architetto è “builder of worlds”, un fabbricatore di realtà che ancora non esistono, ma che attendono di esser costruite: l’autore del testo che interpreta le vicende umane, il regista che compone la sua complessa struttura, e lo scenografo che la esalta nelle forme.
L’architetto per Hejduk ha la responsabilità di “scavare in fondo alla natura del programma per ricercarne l’autenticità del suo tempo”18, per ricercare le forme capaci di catturarne il valore di verità e costruire l’architettura del proprio tempo, nella speranza che possa esser valida per tutti i tempi. Una ricerca continua e paziente da condursi in prima persona, armati della propria libertà di immaginazione, per creare orizzonti di senso rispetto al mondo che abbiamo, per immaginare il futuro della città e possibili alternative al suo sviluppo automatico.
La concezione di un pensiero sul mondo che si forma lentamente nella nostra interiorità, come una “città analoga” a quella reale, costruita giorno dopo giorno, mattone su mattone, in cerca dell’occasione per emergere finalmente dalle sue profonde fondazioni.



Note
1 Hejduk J. (1988). Evening in Llano. In AA.VV. Education of an architect: The Irwin S. Chanin School of architecture of the Cooper Union, John Hejduk, Richard Henderson, editors Elizabeth Diller, Diane Lewis, Kim Shkapich. New York: Rizzoli. 1988
2 gather is the general term for a bringing or coming together [to gather scattered objects, people gathered at the corners ]; collect1 usually implies careful choice in gathering from various sources, a bringing into an orderly arrangement, etc. [he collects coins ]; assemble applies especially to the gathering together of persons for some special purpose [assemble the students in the auditorium ]; muster applies to a formal assembling, especially of troops for inspection, roll call, etc. gather up: to pick up and assemble. Si ricorda a tal proposito il discorso tenuto da Hejduk in ricordo di Alvin Boyarsky, preside della AA Scuola di Architettura di Londra, nella introduzione del quale elenca tutti possibili significati di to gather, e il senso di testimonianza.
3 Si fa riferimento allo scritto “A new curriculum” firmato da C. Rowe e B. Hoesli nel Manuale per la conduzione del progetto della Scuola di Architettura di Austin; estratto da: Caragonne A. (1995). The Texas Rangers: notes from an architectural underground. Cambridge (Mass). London: MIT.
4 Dewey J. (1934). Art as Experience. New York: Minton, Balch & Company; trad. it. L’arte come esperienza, a cura di C.Maltese. Firenze.1951.
5 Hejduk J. The flatness of depth, in Hejduk J. Mask of Medusa: works 1947-1983. New York: Rizzoli. 1985 p.68-69.
6 Ibid, p.69.
7 Trad. «The following projects are the result of a twenty-year effort to search the generating principles of form and space (…) through a self-imposed discipline, through an in-depth study of the content, through an aesthetic». Hejduk J. (1972), Statement, dal catalogo della mostra Projects – John Hejduk, Architects an exhibition at the Fondation Le Corbusier, Paris. October 1972.
8 Si rimanda al catalogo della mostra tenuta al MOMA nel 1971 in cui vennero esibiti i lavori dei cinque anni di corsi della Cooper Union e all’articolo scritto da Robert Slutzky che spiega il punto di vista metodologico adottato in quegli anni nella scuola: AA.VV. (1971) Education of an Architect: a point of view. The Cooper Union School of Art and Architecture 1964-1971. New York: The Monacelli Press ; e Slutzky R. Introduzione alla Cooper Union. Una pedagogia della forma, in Lotus International n.27, 1980.
9 Trad. «whether the evolution of form continues or stops depends on the use of the intellect, not intended as an academic tool, but as a passionate living element. (…) In order to have meaningful a-priori principles, and to take on the path towards a total revelation, which should be present in the obtained form», Hejduk J. (1972), Statement, dal catalogo della mostra Projects – John Hejduk, Architects an exhibition at the Fondation Le Corbusier, Paris. October 1972.
10 Trad. «the intellect is itself something tactile, tangible and sensual, and if you catch it into the forms, you come up with something that breathes, that is not dead. Much of architecture today is dead because it is not able to achieve this», Interview with Don Wall; in Hejduk J. Mask of Medusa: works 1947-1983. New York: Rizzoli. 1985. p.125.
11 Hejduk. J. (1993) Education of An Architect. Voices from the Cooper Union, directed by Michael Blackwood Production.
12 Possono essere raggruppate sotto questo nome le seguenti opere (denominazioni e date sono riferite all’elenco dell’archivio Hejduk redatto dal CCA): Theater Masque (1979-1983), The Lancaster/Hanover Masque (1979-1983), Berlin Masque (1981), New England Masque (1984), Victims I (1984).
13 «The Masques have to do with a search for new, authentic programs. … I am looking for those programs that are authentic. And I’m not so far from Kahn again, in that way. He said that you have to invent the program, that the needs come out of the design, not the other way around. You create a need by creating something that’s new», Hejduk J. (1983) in John Hejduk-WORKS 1950-1983, konzeption Boga T. Zurich: ETH Zurich.
14 Gli intermezzi teatrali inglesi del XVI e XVII secolo, il più delle volte scritti dalla mano di Ben Johnson e rappresentati con i costumi e le spettacolari scenografie di Inigo Jones alla corte degli Stuart, per celebrare eventi o personaggi attraverso una rappresentazione allegorica di danza, musica e maschere. Vedi anche la voce “I masques alla corte degli Stuart” da: Brockett O.G.(1988). Storia del teatro. Venezia: Marsilio editori. pp. 210-213. “Il masque presentava dei tratti comuni agli intermezzi italiani. In entrambi si raccontava una storia allegorica che poneva in luce numerose analogie tra la persona cui lo spettacolo era dedicato, o l’occasione che era celebrata, e alcuni personaggi o episodi mitologici. La storia e i riferimenti allegorici erano espressi principalmente in forme visive: tramite le scene, i costumi, gli oggetti, la mimica e la danza”.
15 «Masque is theater and ritual theater has been intimately related to the historic regulation of the social structure. Theater is a manifestation, which is capable of keeping society balanced, and that is the point of communitas. In theater we can begin to undertake an investigation of the phenomena on which our present society rests. We can ask such questions as ‘Is a hospital good, an acceptable instrument, as we conceive it today, by which the ends of society are reached? Is a school acceptable? Is high rise? Architecture is touched, transformed, bu such study, thus inextricably connecteed to it», virgolettato di J.Hejduk estratto da: John Hejduk by Franz Schulze, in MASQUES, John Hejduk, The Renaissance Society at The University of Chicago, 1981.
16 Semerani L. (2007). L’esperienza del simbolo. Lezioni di Teoria e Tecnica della Progettazione architettonica, Teca1. Napoli: Clean.
17 Conversation betweeen David Shaphiro and John Hejduk. In A+U, 01/1991, n. 244.
18 «... una ricerca a fondo nella “natura” del programma... una ricerca delle possibilità di rinnovamento... un programma che forse ha qualcosa a che fare con lo “spirito del nostro tempo”» estratto da: Hejduk J. Berlin Masque in Lotus International n.33, 1981.

Luca Cardani laureato in Architettura alla Scuola di Architettura Civile del Politecnico di Milano nel 2013 con una tesi di progettazione architettonica per la Fortezza Albornoz e il Colle delle Vigne nel centro storico di Urbino. Dottorando dal 2013 in Composizione Architettonica presso lo IUAV con una tesi sull’opera di John Hejduk dal titolo “John Hejduk. La fabbricazione del carattere”. Cultore della materia al Politecnico di Milano. Collabora con lo studio Monestiroli Architetti Associati.

John Hejduk, Ristrutturazione della Cooper Union, New York, 1969. Dettaglio dell'atrio centrale della biblioteca con le citazioni delle facciate di Villa Garches e Villa Stein (Foto dell'autore)

John Hejduk, Ristrutturazione della Cooper Union, New York, 1969. Dettaglio dell'atrio centrale della biblioteca con le citazioni delle facciate di Villa Garches e Villa Stein (Foto dell'autore)