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Federica Visconti

Identità dell'architettura italiana tra Teoria e Città

La Proposta Architettonica per Roma Est di Carlo Aymonino, Costantino Dardi e Raffaele Panella alla XV Triennale di Milano del 1973. Montaggio di architetture note

La Proposta Architettonica per Roma Est di Carlo Aymonino, Costantino Dardi e Raffaele Panella alla XV Triennale di Milano del 1973. Montaggio di architetture note

Abstract
Il saggio affronta il delicato tema della possibilità di costruzione di una identità della architettura italiana, a partire da quanto elaborato e prodotto nella seconda Novecento, fondata su due termini fondamentali: teoria, da un lato, e città dall’altro. Costanti nel pensiero di Maestri quali Rogers, Samonà e Quaroni, le questioni della architettura della città trovano nella analogia rossiana, innanzitutto come teoria del progetto, una possibile strada per governare ancora oggi la complessità del mondo contemporaneo.

Articolo
Il tema della identità è un tema scivoloso che, in architettura come in altri campi del sapere e del vivere umano, rischia di essere, e spesso è stato, divisivo più che ‘compositivo’ se è vero che, in filosofia, ad esempio, il principio di identità si definisce in uno con quello di contraddizione, come principio logico che asserisce l’identità di una cosa con se stessa – A è A – ed esclude l’identità con altro – A non è non A –. Si tratta, d’altra parte, di un tema quanto mai cogente in un’epoca che Marc Augè ha definito surmodernità, «[…] effetto combinato di un’accelerazione della storia, di un restringimento dello spazio e di una individualizzazione dei destini [1]». Tutte le tre circostanze osservate da Augè, come antropologo, a proposito dei comportamenti umani hanno riguardato molto da vicino anche l’architettura, che, in virtù di un procedere veloce del tempo, di un mondo diventato piccolo grazie alle grandi possibilità di spostamento e della individualizzazione del vivere umano, ha perso la sua connotazione di arte civile, rappresentativa di una collettività. Questa idea è stata ben espressa da Vittorio Gregotti nella sua definizione di architettura come pratica artistica [2] non appiattita né sulla mera tecnica né sulla mera arte: equidistante dalla prima – che tende appunto ad accelerare il tempo e a far sì che una nuova acquisizione renda ciò che si è fatto appena prima obsoleto – ma anche dalla seconda che può rispondere a un principio soggettivo e non ha la responsabilità di dover costruire spazi nei quali una collettività debba potersi ritrovare, la rossiana scena fissa della vita degli uomini. Molti studiosi, in particolare il sociologo Roberto De Vita [3], hanno posto l’accento sulle numerose contraddizioni che la globalizzazione ha generato nel mondo contemporaneo, dove di fatto si è prodotto un aumento delle diseguaglianze e una ricerca della identità sfociata spesso nel rifiuto dell’altro: la sfida è oggi quella di costruire ‘normative identitarie’ in un contesto che deve essere sempre relazionale e dialogico ma che, per essere efficace, deve partire dal riconoscimento di sé per poter riconoscere l’altro e attuare un processo di costruzione dell’identità non fisso e immobile ma in costruzione continua.
A proposito dell’architettura e a proposito dell’Italia, vi sono due parole, strettamente collegate tra loro, che costituiscono le chiavi di un ragionamento possibile sulla identità della architettura italiana e queste due parole sono Teoria e Città. Il termine Teoria, in greco, ha la medesima radice della parola teatro e del verbo theorein (θεωρεῖν) da thea (θέα) “una vista” e horan (ὁρᾶν) “vedere, osservare”. In qualche modo quindi la teoria, per i Greci, è un osservare, con gli occhi o con la mente, e non assurge quindi definitivamente a una dimensione astratta ma ha a che fare con la realtà. Torna in mente il filosofo del realismo György Lukács per il quale «L’architettura è costruzione di uno spazio reale, adeguato, che evoca visivamente l’adeguatezza [4]». Alla esistenza della Teoria si lega quindi, nel suo rapporto con la realtà, la possibilità della Architettura di rappresentare – evocare visivamente – la sua stessa essenza e la rispondenza a questa della forma. La Città, d’altro canto, come ci ricorda lo storico e antropologo Jean-Pierre Vernant, si lega indissolubilmente alla nascita della età classica caratterizzata da «[…] una duplice e solidale innovazione: l’istituzione della città, la nascita di un pensiero razionale [5]». Da allora in poi – e per oltre duemila anni – nel mondo occidentale l’architettura è sempre stata rappresentazione dei valori civili, quindi condivisi, di un popolo.
Teoria e Città sono al centro della riflessione e dell’opera di tre Maestri della Architettura Italiana del Novecento che, come già osservato da Ignasi de Solà-Morales, rappresentano i tre vertici di un circolo intellettuale che elabora i principi di un nuovo e originale razionalismo che, più tardi, troverà un primo punto di stabilità nel lavoro di Aldo Rossi alla XV Triennale di Milano del 1973. I tre Maestri, cui Solà-Morales fa corrispondere tre Scuole, non sempre coincidenti con altrettante sedi istituzionali universitarie, sono Ernesto Nathan Rogers a Milano, Giuseppe Samonà a Venezia e Ludovico Quaroni a Roma. Il saggio di Solà-Morales individua i principi teorici specifici di questo movimento, tra gli altri, nel riduzionismo, nella imitazione, nel ritorno alle cose stesse, a partire da una revisione critica del moderno fondata su un originale gusto per la storia e sulla analisi materiale dell’architettura che trova nella città il luogo dove osservare «[…] il montaggio e l’articolazione di pochi elementi permanenti e immutabili [che] combinandosi in modo non meccanico ma compositivo […] portano a definire l’intero campo delle operazioni possibili [6]». Lo spazio di questo saggio non consente di trattare a fondo la elaborazione teorica dei tre citati Maestri ma le loro opere – prendendo a prestito la metafora della relazione di necessità che esiste tra la centina e l’arco [7] come tra la teoria e la prassi in architettura, laddove l’arco rimane, con la sua forma, a evocare anche la esistenza della struttura che ne ha reso possibile la costruzione – introducono la questione della analogia come teoria del progetto che acquista la sua specificità in Italia nel rapporto con la storia, e quindi con la città. La Torre Velasca dei BBPR nasce, negli stessi anni dell’algido e atopico Grattacielo Pirelli di Giò Ponti, in una relazione imprescindibile con le forme della architettura storica milanese; il Villaggio San Marco di Giuseppe Samonà ripropone il campiello veneziano come forma dell’abitare consueta e consona, seppure in una nuova condizione di immersione nella natura, di città aperta; Ludovico Quaroni, nel progetto dell’ampliamento dell’Opera di Roma, lavora ancora sull’ordine architettonico come strumento per la definizione del carattere dell’edificio. Elementi desunti dalla Storia, conosciuti all’interno della Città, per la costruzione di una Teoria del progetto: «Questa città costruita è basata su fatti ma i fatti sono oramai teorie [8]» è la frase con la quale Aldo Rossi spiega il legame indissolubile tra Città, Storia e Teoria, un legame che si fa realtà architettonica, definitivamente per Rossi, attraverso il pensiero analogico. Nel 1976 Rossi pubblica sulla rivista «Lotus», a commento del celebre collage, un testo intitolato proprio La città analoga: tavola: si tratta di un testo ‘politico’ che ha al centro la questione della bellezza delle città, di una bellezza che Rossi definisce utile ma che rischia di dar «[…] fastidio agli interventi maneschi, affaristici o burocratici»: da qui la necessità di «[…] immaginare il futuro partendo dal concreto altrimenti non può esservi soluzione per la città in quanto fatto sociale per eccellenza [9]». Una avvertenza – che attiene ancora al rapporto tra architettura, come capacità di immaginare il futuro, e realtà – a quaranta anni di distanza ancora piuttosto attuale, pur in un mondo caratterizzato da una sempre crescente complessità. Complessità dunque come connotato della nostra contemporaneità come ben è stato descritto, tra gli altri, da Edgar Morin. «V’è complessità quando sono inseparabili le differenti componenti che costituiscono un tutto […] e quando v’è un tessuto interdipendente, interattivo e interretroattivo fra le parti e il tutto e fra il tutto e le parti [10] » – scrive Morin – cui si rende necessaria l’applicazione di un pensiero complesso. «Uno degli assiomi della complessità è l’impossibilità, anche teorica, dell’onniscienza» – afferma ancora Morin – «Riconoscimento di un principio di incompletezza e di incertezza. Il pensiero complesso è animato da una tensione permanente tra l’aspirazione a un sapere non parcellizzato, non settoriale, non riduttivo, e il riconoscimento dell’incompiutezza e della incompletezza di ogni conoscenza. [...] [11]». Di fronte a questa condizione «L’analogia [può essere] il dispositivo che, in ogni antinomia e in ogni aporia, esibisce la loro inevitabilità logica e, insieme, rende possibile non tanto la loro composizione, quanto il loro spostamento e la loro trasformazione [12]» rendendo avverabile, in qualche modo, un carattere progressivo del nostro agire che, in architettura, si lega al rogersiano concetto di continuità. Una modalità del pensiero che non deve contrapporsi al pensiero logico ma integrarlo nell’ambito di un razionalismo inteso, con Antonio Monestiroli, come «[…] concatenazione di passaggi, all’interno dei quali ci sono anche ‘passaggi non sicuri’ come l’analogia che è un passaggio insicuro eppure anch’esso razionale. Nel senso che il riferimento all’analogia ha sempre una ragione riconoscibile [13]».
Nel Dizionario della lingua italiana, alla voce analogia, si legge «rapporto di somiglianza tra alcuni elementi costitutivi di due fatti od oggetti, tale da far dedurre mentalmente un certo grado di somiglianza tra i fatti e gli oggetti stessi [14]»; continuando si elencano i significati particolari che il termine assume in tante discipline e, tra i tanti, particolarmente efficace è quello che, relativamente alla biologia, recita «[…] l’identità o la somiglianza delle funzioni di organi strutturalmente diversi […]». Manca l’architettura ma, nella definizione che precede, si potrebbe sostituire funzione con finalità – in senso Kantiano – e organi con architetture per ottenere una possibile definizione della analogia in architettura fatta di «Cose diverse che s’illuminano, o acquistano luce diversa se accostate [nel tempo e nello spazio]» tanto che «[…] l’analogia ad ogni confronto aumenta la nostra capacità di conoscenza» [15].

Note
[1] Marc Augè, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
[2] Su questa definizione, legandola anche alle questioni del realismo, Gregotti è tornato in molti testi, tra i tanti: Vittorio Gregotti, Sulle orme di Palladio. Regioni e pratica dell’architettura, Laterza, Roma-Bari 2000; Vittorio Gregotti, L’architettura del realismo critico, Laterza, Roma-Bari 2004 and, more recently, Vittorio Gregotti, Una lezione di architettura. Rappresentazione, globalizzazione, interdisciplinarità, Firenze University Press, Firenze 2009.
[3] Roberto De Vita, Identità e dialogo, FrancoAngeli, Milano 2003.
[4] György Lukács, Estetica, Einaudi, Torino 1960.
[5] Jean-Pierre Vernant, Le origini del pensiero greco, SE, Milano 2007.
[6] Ignasi de Solà-Morales, «Tendenza»: neorazionalismo e figurazione, in Id., Decifrare l’architettura. «Inscripciones» del XX secolo, Umberto Allemandi & C., Torino 2001.
[7] Carlos Martí Arís, La cèntina e l’arco. Pensiero, teoria, progetto in architettura, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2007.
[8] Aldo Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Padova 1966.
[9] Aldo Rossi, “La città analoga: tavola”, in «LOTUS» n.13, Electa, Milano 1976.
[10] Edgar Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Editore Cortina Raffaello, Milano, 1999.
[11] Edgar Morin, Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano 1993.
[12] Giorgio Agamben, Archeologia di un’archeologia, in Enzo Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata 2004.
[13] Federica Visconti, Renato Capozzi (eds.), trentatré domande a Antonio Monestiroli, Clean, Napoli 2014.
[14] Giacomo Devoto, Gian Carlo Oli, Vocabolario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 1990.
[15] Aldo Rossi, Questi progetti, in Alberto Ferlenga (a cura di), Architetture 1988-1992, Electa, Milano 1992.

Bibliografia / References
Capozzi, R., Orfeo, C., Visconti, F. (2012). Maestri e Scuole di Architettura in Italia. Napoli: CLEAN.
Hofstadter, D.R., Sander, E. (2015). Superfici ed essenze. L’analogia come cuore pulsante del pensiero. Torino: Codice.
Melandri, E. (2004). La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia. Macerata: Quodlibet.
Rossi, A. (1966). L’architettura della città. Padova: Marsilio.
Rossi, A. (1976). “La città analoga: tavola”, in «LOTUS» n.13. Milano: Electa.
de Solà-Morales, I. (2001), «Tendenza»: neorazionalismo e figurazione, in Id., Decifrare l’architettura. «Inscripciones» del XX secolo. Torino: Umberto Allemandi & C.


Federica Visconti (Napoli, 1971) si è laureata in architettura con lode nel 1995 a Napoli. Dottore di ricerca in Progettazione Urbana della Università di Napoli Federico II nel 2002, nel 2003 ha conseguito la Specializzazione in Progettazione Architettonica e Urbana. Professore Associato di Composizione Architettonica e Urbana dal 2011 presso il Dipartimento di Architettura della Federico II di Napoli. Componente del Comitato Scientifico della rivista EDA_esempi di architettura e di numerosi editorial board di Collane sui temi della composizione architettonica e del progetto urbano. Tra le linee di ricerca, sui temi della teoria, sono stati indagati i rapporti tra architettura razionale e nuovo realismo, a partire dalla analisi del dibattito Italiano degli anni Sessanta e Settanta del Novecento.
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