Scegli la Lingua

Festival dell'architettura

Ti trovi in: Home page > Archivio Magazine > Ma quanto è brutta questa "Smart City"!

Umberto Cao

Ma quanto è brutta questa "Smart City"!

La città digitale

La città digitale

Abstract
La Smart City è una macchina, una sorta di città-computer nella quale l'hardware è costituito dagli edifici e dalle infrastrutture e il software dalla gestione digitale integrata delle comunicazioni immateriali. Insomma una città efficiente nel senso pieno della parola. Il problema si pone quando queste caratteristiche vengono considerate sufficienti a restituire qualità alla città. Una qualità urbana che discende meccanicamente dalla “efficienza” farebbe pensare più alla distopia della Metropolis di Fritz Lang che alla utopia della Città nuova di Sant'Elia.

Testo

In soli quarant’anni si è passati dai primi personal computer alle sofisticate macchine di oggi, dalle prime connessioni in rete alla comunicazione web planetaria. E’ opinione diffusa che la rivoluzione digitale sia solo all’inizio e che ancora molto cambierà nel nostro sistema di vita e di relazione. Personalmente, avendolo interamente vissuto, sono passionalmente coinvolto da questo progresso tecnologico e seguo con interesse le ipotesi di ulteriore sviluppo di sistemi di connessione e gestione che possano migliorare la qualità della vita nelle nostre città.

La retorica della Smart city nasce da qui. Dal concetto che le reti digitali opportunamente integrate e considerate come armatura strutturale, possano restituire alla metropoli contemporanea una dimensione equilibrata e sostenibile. Una città cablata come fonte di sviluppo. In realtà il termine Smart city ha assunto valori diversi, assegnati dai volta in volta da discipline accademiche, interessi professionali, marketing aziendale e lobby di potere, che lo hanno orientato verso finalità non sempre convergenti. Quello che mi sento di condividere, tracciando una sorta di interpolazione tra le varie interpretazioni, è che la Smart city di fatto già esiste in episodi urbani circoscritti o in singole architetture, ampiamente controllate dalla domotica o da sistemi telematici. Non è utopia, è la teorizzazione di una realtà che si configura giorno per giorno. Potrà diventare una sorta di protocollo di progettazione o trasformazione urbana fondato sulla interattività e sulla comunicazione. Il fine sembra essere quello di risparmiare energia, migliorare la salute e la mobilità, rendere più efficienti i servizi e più produttivo il lavoro. Una macchina, una sorta di città-computer nella quale l'hardware è costituito dagli edifici e dalle infrastrutture e il software dalla gestione digitale integrata delle comunicazioni immateriali. Insomma una città efficiente nel senso pieno della parola. Fin qui è anche condivisibile. Il problema si pone quando queste finalità e queste procedure vengono considerate generatrici di forma architettonica, ovvero quando si ritengono sufficienti a restituire qualità alla città. Una qualità urbana che discende meccanicamente dalla “efficienza” farebbe pensare più alla distopia della Metropolis di Fritz Lang che alla utopia della Città nuova di Sant'Elia.

Penso che l’esperienza scientifica non debba essere la mera applicazione di processi che consentono il transito dalla innovazione tecnologica alla sua messa in atto, bensì una sostanziale unità del processo conoscitivo, nel quale, al tempo stesso, si deve ragionare per concetti scientifici e per realtà immaginate: dunque, affinchè la città possa essere “bella”, occorre ancora la capacità di immaginare “forma”.

Invitato ad un recente convegno sulla Smart city, Rem Koolhaas(*) pur riconoscendo l’efficacia delle nuove tecnologie digitali e la necessità di creare sinergie tra discipline diverse, evidenziava alcune criticità sulla reale possibilità di innovare le metropoli affidandosi a questi principi. In accordo con Koolhaas, non credo che la metropoli del futuro possa affidare la sua forma ad un sistema di reti destinato a controllare le condizioni di lavoro, movimento e tempo libero, misurato sui dati individuali o familiari, ma finalizzato allo sviluppo del business e del mercato. Sarebbe pericoloso un trasferimento della autorità decisionale dalla politica ai domini digitali, dall’amministratore al manager, dall’architetto all’informatico e dal designer al tecnico.

Seguendo ancora la riflessione di Koolhaas, l’idea di città, oggi metropoli, è generalmente applicata al concetto di comunità, l’architetto-urbanista ne è il portatore e dovrebbe dedicarsi a questo, semmai riformulando il concetto stesso di comunità. Ma dalla fine degli anni Settanta, dopo il trionfo dell'economia di mercato, l'urbanistica e l’architettura non hanno espresso più i valori comuni, ma i valori della finanza “Y-€-$” (Yen/Euro/Dollaro) che ha governato ogni campo del sapere e dell’agire. Un vero regime che ha avuto un grande impatto sulla città e il modo di intendere le città. La metropoli è diventata il luogo della sicurezza, ma della sicurezza per le attività di mercato. Sulla metropoli oggi non ci sono utopie, ma neppure teorie o manifesti. Ci siamo fermati a pensare la città nel momento esatto dell'esplosione della metropoli nel mondo in via di sviluppo. Allora la metropoli ha trionfato e la Smart city con i suoi dispositivi tecnologici di controllo ha occupato il vuoto culturale che si è creato.

Koolhaas prosegue il suo ragionamento notando come i protagonisti di una affollata competizione per la leadership della Smart City praticano la retorica dell’apocalisse identificando una molteplicità di catastrofi: gli effetti del cambiamento climatico, l'invecchiamento della popolazione, le infrastrutture e la mobilità, l'acqua e la fornitura di energia, lo smaltimento dei rifiuti. Problemi reali, che però non sono presentati come esito di carenze gestionali, amministrative o politiche, bensì in quanto risolvibili secondo lo slogan fix leaky pipes, save millions. Tutto fa risparmiare milioni, non importa l’entità del problema, ma l’entità del business che vi si costruisce sopra. La motivazione commerciale corrompe lo stesso problema che dovrebbe risolvere, arrivando al punto estremo che per salvare la città potremmo, prima, doverla distruggere.

Gli spazi esistenziali della mobilità e della stanzialità nella Smart city saranno dotati di dispositivi di rilevamento sempre più sofisticati. L'automobile sarà monitorata nei suoi spostamenti e forse teleguidata dal satellite. Gli “elementi dell’abitare”, come il muro, il pavimento, la porta, il soffitto, la scala, che Koolhaas stesso aveva esposto nella recente Mostra della Biennale di Architettura 2014, con una raffinata ed analitica elencazione sia delle loro radici storiche che delle declinazioni di forma e d’uso, forse spariranno, evolvendosi in sintonia col sistema di sorveglianza globale. La casa, in mano alla domotica, si trasformerà in una cella sensibile automatizzata, piena di dispositivi come finestre automatiche che si possono aprire solo in determinati momenti della giornata; piani con sensori in modo che il cambiamento di posizione di una persona da verticale a orizzontale, possa essere automatizzato; il riscaldamento applicato alle persone, così da formare mantelli di scudo termico che deambuleranno con loro. E per risolvere l’irrinunciabile necessità di privacy, conclude Koolhaas, una gabbia di Faraday sarà la componente necessaria di ogni abitazione: una cella di sicurezza in cui ritirarsi per sfuggire al rilevamento digitale e al controllo.

Tutto questo sembra più roba da fantascienza che effettiva proposta di innovazione dell’abitare e della metropoli. E’ una retorica che fornisce modelli facili, emozionali ed effimeri. Un sistema troppo scontato per rifondare quella fiducia nella tecnologia e nel progresso che la modernità aveva affermato e che oggi sembra perduta. Troppo costruito sull’esaltazione di una digitalizzazione universale fondata su bolle di benessere individuale che isolano dalla sfera pubblica. E tutto, senza forma, renderà “brutta e volgare” la città. La Smart City è comunemente rappresentata con immagini urbane di facile impatto. Di giorno con figure morbide e colori brillanti: il verde o l’arcobaleno dominano su immagini rassicuranti di una metropoli limpida e profumata, con alberi e boschi anche verticali, fiumi o laghi con vele, piste ciclabili e autostrade scorrevoli, nelle quali la stessa tecnologia è invisibile. Di notte invece si accendono le autostrade urbane innervate da fluidi luminosi che scorrono, in un incessante consumo di energia, tra policrome e altrettanto lucenti torri “intelligenti”. Giorno e notte così traducono la Smart City in un ossimoro pseudo ambientalista sospeso tra il rispetto per l’ambiente e lo sviluppo dell’elettronica. Altre volte, con maggiore prudenza, la Smart City si presenta sotto forma di ideogramma o schema postillato dalle consuete parole d’ordine della sostenibilità e del risparmio energetico; tutto sommato una rappresentazione più onesta, che si ferma prima di definire una morfologia.

Sino ad oggi il dibattito sulla Smart City, promosso quasi sempre dalle grandi potenze della tecnologia digitale (il mondo ICT ,Information and Communication Technology), ha coinvolto imprenditori dell’edilizia, produttori di materiali, governanti e amministratori locali, ambientalisti, ricercatori e docenti di discipline informatiche e tecnologiche, ma pochi architetti, in particolare pochissimi studiosi o progettisti della città. Un fiume di euro, oltre 70 miliardi, è stato canalizzato dal programma Horizon 2020 su macro temi importanti, all’interno dei quali, però, è difficile trovare spazio per il progetto di rigenerazione architettonica e spaziale della città contemporanea. Sappiamo bene come la progettazione urbana, rilanciata dagli studi sulla città storica che hanno caratterizzato l’esperienza italiana ed europea tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta, sia entrata in crisi negli anni Novanta, quando, perdendo il controllo sullo sprawl nel paesaggio, non ha saputo riordinare il suo codice disciplinare nella trasformazione urbana (alla piccola scala) e nel governo del territorio (alla grande scala).

In definitiva oggi la progettazione urbana non riesce a comunicare con la nuova dimensione tecnologica della metropoli. Il percorso di ricostruzione di un profilo condiviso della progettazione urbana sarà difficile e lungo. Mi limito a concludere queste note indicando alcuni indirizzi. 1. Costruire la città nuova trasformandola a “saldo zero”, ovvero tanto si costruisce quanto si demolisce. 2. Intervenire nel paesaggio per diradamento o densificazione, a seconda dei casi: tutela da una parte e completezza urbana dall’altra. 3. Lavorare nella città consolidata per rigenerazione e riciclo dell’esistente, nelle periferie per parti compiute ed autonome. 4. Tornare sul sistema delle infrastrutture, che abbiamo studiato negli ultimi quindici anni anche nelle loro caratterizzazioni formali, accogliendo gli stimoli delle reti di cablaggio e comunicazione. 5. Accogliere nel progetto le indicazioni di nuovi tecnici e nuove tecnologie, seguendo il principio che la forma architettonica deve tornare ad essere la sintesi delle diverse istanze disciplinari.


Umberto Cao è Architetto e Professore Ordinario di Composizione Architettonica e Urbana nella Scuola di Architettura e Design dell’Università di Camerino, ne è stato Preside sino al 2013. Tra gli anni Settanta e Novanta ha realizzato numerosi progetti di Edilizia Popolare alla periferia di Roma, due Stabilimenti aeronautici Alenia a Nola. Più recentemente una Piazza-Parco a Roma (2003) e due edifici per Dipartimenti Universitari a Camerino (2002 e 2006). Ha pubblicato nel 1995 Elementi di Progettazione Architettonica, nel 2001 Spazi e Maschere, nel 2003 Polveri Urbane, nel 2009 L’Architettura prima della forma, oltre a numerosi saggi su libri e riviste. E stato membro del Comitato Direttivo della rivista Gomorra, territori e culture della metropoli contemporanea
Parigi trasformata in Smart City - ZOOM

Parigi trasformata in Smart City