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Emanuela Giudice

L'architettura tra Withes e Grays

Strumenti, metodi e applicazioni compositive

Five Architects, MoMA, New York, 1969. - ZOOM

Five Architects, MoMA, New York, 1969.

Abstract

Il Novecento dell’architettura ha conosciuto numerosi episodi di dibattito intenso. È il secolo nel quale si sono moltiplicati in maniera esponenziale gli «strumenti discorsivi»: i manifesti, i saggi critici, le riviste, le scuole, le mostre. Così, più ancora che nei secoli precedenti, ha preso piede il discorso intorno all’architettura, sovrapponendosi a tratti all’architettura medesima, alle sue forme e alla sua costruzione. La parola, prendendo il sopravvento, può nascondere allo studioso la forma architettonica, a meno che lo studioso medesimo non ricorra al disegno come strumento di analisi, vero apparecchio scientifico utile a disvelare grammatiche e sintassi di composizioni architettoniche attraverso la tecnica della «lettura compositiva».

La ricerca affronta per temi figurativi e per forme dell’architettura due gruppi dicotomici, i «Whites» e i «Grays», che l’architettura americana ha voluto vedere come antagonisti in riferimento alla cultura architettonica succedutasi tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta. Dalla mostra sui Five Architects allestita al MoMA di New York nel 1969 all’esegèsi del Decostruttivismo, le parole sono organizzate per strumenti discorsivi, dalle riviste “Oppositions” e “Perspecta” a quelli che paiono come veri e propri manifesti. Passando attraverso i luoghi di formazione in cui rifondare l’educazione dell’architetto, il dibattito intercorso tra i «Whites» e i «Grays» ha mostrato la necessità di rifondare, all’interno della cultura americana, una disciplina ormai priva d’identità, rendendo possibile la restituzione di una ricerca comune in cui rivelare inaspettate coincidenze di procedimenti compositivi e riferimenti.


Introduzione

Quando nel 1969 il Museum of Modern Art di New York chiama a raccolta un manipolo di cinque architetti, allestendone i progetti e portando all’attenzione del pubblico l’operare di un’auspicata scuola newyorkese, ci si trova di fronte all’elaborazione di un discorso critico intorno all’opera teorica e costruita di cinque architetti americani [1]. Five Architects ancor prima che Whites, Peter Eisenman, John Hejduk, Richard Meier, Michael Graves e Charles Gwathmey sono i protagonisti di un dibattito architettonico sugellato, nel tempo, dalle parole di Arthur Drexler, Kenneth Frampton, Colin Rowe. Oltre che da Philip Johnson.

Pochi anni prima, nel 1966, lo stesso MoMA aveva dato alle stampe il “manifesto gentile” di Robert Venturi, aprendo le porte ad una pratica espressiva gray fatta di complessità e contraddizione.

L’architettura, non più immune alla profusione degli strumenti discorsivi, si sarebbe presto trovata in mezzo ad un dibattito ideologico, sintetizzabile nell’immagine pubblicata dalla rivista “A+U”, in cui un redivivo Le Corbusier appresta il proprio cenacolo ponendosi al centro dei due gruppi[1]. Opposizioni. Non certo vacue quelle costruite tra i Whites e Grays, quanto capaci di creare antinomie, nel linguaggio come nella costruzione dell’architettura, attraverso procedimenti compositivi, “tacciabili” di somiglianza.

Procedimenti associativi Po-Mo.

Luoghi. Per dire degli strumenti e dei metodi utilizzati nel progetto di architettura dai Whites e dai Grays, si può ricorrere a quelli esposti lungo la “Strada Novissima” allestita, nel 1980, in occasione della Biennale di Venezia. La rivista «Controspazio» le aveva dedicato un numero monografico, riportando le motivazioni di un’esposizione in cui ravvisare «non una presa di posizione lontana, chiusi a disegnare seduti nel proprio studiolo ma […] una presunta etica urbana postmoderna e discorsiva e attenta all’ambiente»[2].

Alle Corderie dell’Arsenale, il versante dei Grays si presentava con i nomi di Charles Moore, Robert Venturi, Denise Scott Brown, con le parole di Robert Stern e Vincent Scully oltre a un Michael Graves in cerca di una mediazione tra il bianco e il grigio [2].

Emblema di procedimenti compositivi associativi e antesignana dell’architetto bricoleur, la “Strada Novissima” pensata dai Grays si costruiva su una riacquisita libertà, tra segni storici e significati oltre che su mancate autocensure capaci di liberare la forma architettonica dai dettami ideologici del modernismo.

In questa paratìa di facciate disegnate, gli elementi della storia venivano così deformati, posti fuori scala, accostati in modo arbitrario, ritrovandosi a lavorare sulle questioni della rappresentazione e su un significato, in architettura, tutto da riabilitare.

Era lì il vocabolario degli archetipi architettonici, la colonna, il frontone, il muro, la scala, e lì iniziavano ad assumere un’identità metastorica, costituendo quella serie di “invarianti” dell’architettura postmoderna a cui le operazioni dei Grays sono strettamente riconducibili [3]. E dal lavoro sul linguaggio classico il passo all’utilizzo del frammento è breve. Citazione. Qui si proclama la serie di rimandi e i concetti di contiguità, somiglianza e contrasto.

Hanno, i Grays, attuato tecniche compositive fatte di montaggio e di ricollocazione di segni ricavati dalla memoria architettonica. In questo modo, gli elementi utilizzati nelle loro architetture si sono specchiati in forme e significati già compiuti, in parte contrapponendosi al versante dei Whites. Lo si era potuto vedere fin dalle prime operazioni progettuali di Robert Venturi, in cui il ritorno allo Shingle Style e alla casa tradizionale americana si era risolta in un riferimento tipologico ridotto a campionario neorealista. [4].

Dei Whites, è Michael Graves quello che più si è avvicinato a ciò che pareva antitetico, così come Venturi lo è stato per i Grays, attuando procedimenti compositivi “misti”. Attraverso il progetto di piccole case che guardano alla tradizione costruttiva del ballom frame, Graves ha utilizzato muri svuotati, figure dello scavo, grazie alla presenza di una struttura non vincolante, divenuta metafora. Così, come un perfetto bricoleur, Graves ha mescolato la tradizione Shingle Style a quella del purismo lecorbuseriano. E se l’entrata ritorna ad essere rituale, come nella Hanselman House, la controparte gray trasgredisce la regola quando, nel progetto per la Vanna Venturi House, Robert Venturi nega l’ingresso, ponendolo non in linea con il vialetto d’accesso. Lo ribadisce anche il camino, posto oltre l’asse di simmetria, negazione del tracciato fondamentale. E la finestra, che da quadrata, diventerà l’elemento connettivo della facciata, quando ripetuto, raddoppiato e traslato orizzontalmente, assumerà la forma di una “fenêtre en longeur”.

In fondo, i Grays hanno finito per operare una sintesi fortemente personale del materiale storico, con l’immissione, in nuovi contesti, di motivi simbolici, formali e tipologici tratti e riscritti da un repertorio comune.

Procedimenti autoriflessivi in total white

Una decina di anni prima rispetto all’inaugurazione della “Strada Novissima”, tra le pagine della rivista "Casabella" erano comparse alcune Note sull’architettura concettuale scritte da Peter Eisenman. La collaborazione tra la rivista a direzione mendiniana e lo IAUS (Institute for Architectural and Urban Studies) - al cui interno si collocavano i gruppi migliori per far «rimbalzare, in Europa dagli Stati Uniti, i temi alternativi alla prassi canonica della progettazione» - aveva subito condotto a una riflessione sull’architettura concettuale, intesa «come compresenza della dimensione mentale con quella fisica»[3].

All’arte seriale, che proponeva forme di astrazione geometrica, si sarebbe sostituito l’oggetto “in sé”, segnando il passaggio da un’esperienza estetica, visuale e sensibile, ad una di tipo cerebrale in cui il testo diventa il mezzo con cui attuare il significato. Spesso “danneggiati”, i testi dei Whites elencano case dotate di numero (House I, House II, come nel caso di Eisenman, House 10 come nel caso di Hejduk) [5]. Forme “scomposte” dove i legami tra gli elementi sembrano dissolversi e dove la ricostruzione non può che spettare al “lector”, la cui libertà interpretativa avrà il compito di esplorare nuove possibilità di forma contribuendo al processo creativo (nonché descrittivo). Le azioni compositive dei Whites si attestano così sulle questioni della struttura, pensate per griglie, antinaturalistiche, (neo)razionaliste, opposte al reale (e, certo, al “genius loci”). [6]. Nelle scritture architettoniche di Eisenman, così come di Hejduk si può allora ritrovare quell’idea per cui «la composizione è scrittura architettonica», in cui il comporre diventa «attività, mezzo, procedimento, per pensare, classificare, sviluppare e trasformare il proprio linguaggio» e dove «lo scrivere diventa più importante dell’opera, lo scrivere è l’opera»[4].

Compariranno, nei disegni in total white, rotazioni, variazioni per contrasti, parzializzazioni di forme elementari, tenute tutte insieme dal programma (più che dalla funzione). Ma comparirà anche il percorrere, le colonne travestite da pilastro – nella House I progettata da Eisenman a Princeton - gli ingressi annunciati da “stilobati” parziali, superfici opache lignee che strizzano l’occhio alla tradizione shingle (la Smith House di Richard Meier).

Non che, nell’architettura dei Whites, non vi siano stati riferimenti. Solo, la differenza sta nel rimando a cui si rifanno le singole opere: sintattico o iconico. La disputa tra Whites e Grays sembra potersi attestare su progetti pensati per “forme” e per “figure”, secondo l’accezione data da Alan Colquhoun[5]. E se i primi presuppongono che le forme architettoniche possano essere ridotte ad un astorico grado zero[6], gli ultimi, andando di pari passo con il fine della rappresentazione, si volgono ad una comune persuasione.

L’architettura del versante pop-venturiano, l’architecture parlante ha navigato a fianco di quella dei strutturalisti bianchi o l’architecure parlante de soi-même. E gli strumenti, i metodi e le applicazioni compositive dei «Whites» e dei «Grays» si sono impastati con procedimenti simili [7] [8].

Mancano ancora alcune modalità compositive, intorno a quella questione comune che è stata, per i Whites come per i Grays, il progetto di architettura. Saranno il distorcere, il deformare, il comprimere e l’implodere, i procedimenti che solo qualche anno più tardi sarebbero stati raccolti sotto l’égida del Decostruttivismo.



[1] White and Gray. Eleven Modern American Architects, “A+ U”, numero monografico, n. 52, aprile 1975.

[2] D’AMATO C., CELLINI F., La costruzione della Strada Novissima, in D’AMATO C., CELLINI F. (a cura di), La presenza del passato, in “Controspazio”, numero monografico, gennaio-dicembre 1980, p. 10.

[3] MENDINI A., Editoriale, in “Casabella”, n. 359-360, novembre-dicembre 1971.

[4] LEONCILLI MASSI G., La composizione. Commentari, Marsilio, Venezia 1985, p. 20.

[5] COLQUHOUN A., Architettura moderna e storia, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 86-112.

[6] Ibidem, p. 125.


Emanuela Giudice si è laureata in architettura presso il Politecnico di Torino dove ha conseguito il Dottorato di Ricerca con la tesi “Lectures. Strumenti, metodi e applicazioni compositive nell’architettura tra Whites e Grays”. I suoi studi sono riferiti ai linguaggi radicali e alla cultura della postmodernità in relazione all’architettura e al design. Ha collaborato con il Politecnico di Torino e ha avuto incarichi di docenza presso SJIU (Saint John International University). 

Peter Eisenman, Falk House, Hardwick, Vermont (Cardboard Architecture House II), 1969-70. - ZOOM

Peter Eisenman, Falk House, Hardwick, Vermont (Cardboard Architecture House II), 1969-70.