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Aimaro Isola

Eravamo Maestri?

Enea e Anchise. Disegno di Aimaro Isola

Enea e Anchise. Disegno di Aimaro Isola

Abstract

L’autore indaga tutto il fascino e l'ambiguità del rapporto fragile e complesso tra Maestro e allievo. E lo fa con il gusto, la statura e la leggerezza di un “vero maestro”. Fondazione di un luogo e formazione del discepolo diventano metafore l'una dell'altra. “Ecco che l’insegnamento diventa lavoro comune. (...) riconoscimento di un linguaggio e di un paesaggio comune, nello spazio, ma soprattutto nel tempo. Paesaggi che ci comprendono e che dobbiamo comprendere.”


Qui si espongono i lavori e si discorre di “giovani” che sono stati allievi di variegate scuole d’Architettura. Coloro che in qualche modo sono stati i loro maestri, cioè noi, ci affacciamo spiando curiosi tra le righe e le immagini.

E’ forse anche un’occasione per interrogare noi stessi sul nostro essere stati Maestri.

Ma prima dobbiamo essere sicuri di essere stati veramente Maestri.

E ancora: “che cosa autorizza un uomo od una donna ad istruire un altro essere umano? Dove risiede l’autorità dell’insegnamento?” Che cosa temere oggi da Edipo o piuttosto come rincuorarlo nel momento in cui il mito e lui stesso si stanno disfacendo? (G. Steiner, La lezione dei Maestri, Garzanti).

E che cosa in realtà trasmettiamo, traduciamo, cioè trasciniamo, di generazione in generazione, delle nostre certezze delle nostre retoriche e dei nostri inganni? Sono domande silenziose che ci hanno accompagnato dietro la cattedra, ma soprattutto ci hanno tormentato quando, tra i banchi, seduti sugli sgabelli, correggevamo, condannavamo, approvavamo, incoraggiavamo il lavoro dei giovani allievi.

L’età, i molti esami che noi stessi abbiamo sopportato e sofferto, i concorsi, i libri studiati e letti, l’esperienza, la tradizione, ci hanno confermato nel nostro ruolo sospingendoci, per fortuna nostra, a non “farci problemi”.

Molti ci hanno chiamato Maestri. Giovanni Durbiano, riprendendo l’ironia di Bruno Zevi, intitola un libro che parla di noi, I Nuovi Maestri (Marsilio); altri indicano la nostra generazione, o meglio quella che ci ha preceduto, come quella degli Ultimi Maestri.

A molti di noi, in fondo, tra amici, piace chiamarci Maestro.

Ciò ha un sapore antico, di governo del cantiere, di guida di maestranze: ma ora più che prestigio ciò sembrerebbe dare sicurezza e conforto.

Abbiamo sovente guardato, Roberto Gabetti ed io, con spregiudicatezza ciò che stava dietro al nostro esser Maestri e ci pareva di vedere, come la generazione dei Maestri – se mai fosse esistita – stesse ormai estinguendosi. Questo indebolimento del ruolo del Maestro, forse, va insieme, è parte del “disincantamento del mondo”. Disincanto verso la tradizione, verso l’idea del classico, dell’esemplarità, di una verità già data in qualche luogo. C’era una sacralità nel Maestro, ma come in ogni sacralità anche una “violenza”antica.

Il Maestro, come in un rito sacrificale (R. Girard), doveva custodire ed ostentare certezza per imporla. Doveva essere, infine, vittima sacrificale, nel tempo della emancipazione, da parte dei discepoli migliori, che ne facevano scempio.

Roberto ed io provavamo, nel sentirci dire Maestri, una sensazione di disagio che sovente coprivamo con l’ironia. Ironia e disagio nel vedere il discepolo segnato dal marchio di fabbrica di certezze nelle quali noi stessi, sovente, dubitavamo, Disagio perché ci trovavamo, docente e discente, in una situazione asimmetrica che ci imbarazzava.

Forse il Maestro diventa veramente Maestro nel momento in cui sente di potersi ritirare (penso ad Agostino, De Magistro).

Mettendo in gioco se stesso si assenta come Maestro, cede il proprio spazio: è allora che il discepolo può aprire ed occupare uno spazio suo, può diventare se stesso.

Così anche noi, Roberto ed io, credo, da Muzio da Mollino, come da Aloisio, da Astengo, da Rigotti, ma anche da Cavallari Murat e da Pizzetti abbiamo imparato, dal loro magistero, nel momento in cui ci siamo staccati dalle loro figure, con amore, forse, certamente senza odio Edipico.

(A.Isola, Roberto Gabetti: il collega, il Maestro, l’amico, Acc. delle Scienze, Torino.).

Nel tempo lungo del disincantamento del mondo la devozione e l’ammirazione per la statura dei Maestri, per quelli nuovi, ma anche per gli Antichi Padri sembrano essere venute meno. Il Sublime, il non essere più all’altezza dei “forti” del passato, dei loro insegnamenti e delle loro etiche non ci spaventano più come terrorizzavano i romantici. Anche il mito ormai elaborato e rielaborato, che celebrava l’esemplarità dell’Eroe (come ci insegna Blumenberg) sembra quasi “ormai portato a termine”; o, forse, solo è degradato e reso irriconoscibile. I modelli, gli esempi sono nei media e nei loro protagonisti.

Per apparire “nell’età dell’irriverenza, i nostri idoli devono esibire una testa di argilla” fama e celebrità, autorità ed autorevolezza divergono sempre di più. Gli eroi, ed i Maestri diventano trasparenti.

Ma anche i Maestri, va detto, sono pronti a sconfessare e a prendere le distanze da quegli allievi che una volta erano i prediletti; già Agostino si domandava, ed è domanda che speso anche noi ci siamo dovuti porre, se il Maestro è responsabile della condotta dei suoi discepoli.

Insegnare può essere “impresa terribilmente pericolosa”; ogni teoria pedagogica fa sempre riferimento al libero arbitrio; tutti pensiamo infatti che l’autentico discepolo può essere soltanto qualcuno che imparerà a seguire se stesso, cioè la propria “libido sciendi”, la propria curiosità .

Uno strano nesso sembra tenere insieme, dall’origine, la fondazione e la progettazione di un luogo (città, casa, struttura) e la formazione del discepolo. La sacralità era attributo del Maestro, il culto ed il rito presiedevano in qualche modo alla conservazione, alla diffusione e alla tutela dei saperi quindi alla formazione dei discepoli. Così anche il gesto che fonda e forma lo spazio costruito, che segna sulla terra limiti, traccia strade, appartiene, nel tempo, al sacro.

Formatività (direbbe Pareyson) e Bildung sembrano ieri, ma ancor oggi, invocare una loro possibile trascendenza. L’edificio, la città, il mondo, ciò che viene costruito ad “Arte” conservano la loro carica di emozione , di ammaestramento, di esemplarità: allo stesso modo ciò che viene insegnato dà forma, cioè architettura, alla personalità dell’allievo, deve sedurlo, costruirlo, “abitarlo”, quasi che l’Accademia stessa rispecchi i caratteri della Città.

Abitare ed essere si intrecciano nel momento del loro avvento.

L’origine sacra veicola nel tempo emozioni, seduzioni, eros, ma anche quella violenza che oggi emerge inattesa nei saperi e nei luoghi. (A.Isola, Violenza nell’architettura , Aion).

Recinti, nascondimenti, rituali, governano discipline e dipartimenti; rivive sempre la difesa esoterica dei teoremi pitagorici. Aristofane ride ancora oggi di Empedocle cacciato dalla sua città che voleva governare da filosofo. La diffusione delle scienze va tutelata: “il sapere può essere pericoloso”.

Per fortuna, il fremito del dubbio ha accompagnato da sempre le nostre sicurezze scientifiche. Da sempre il “vero Maestro” ed il suo sapere non solo è messo in dubbio, ma lui stesso incomincia ad ostentare il proprio dubitare. Socrate, come l’oracolo di Delfi, professando la propria ignoranza mira a creare, ingannandolo, uno stato di insicuezza nell’allievo (ma solo, Lui alla fine, darà la soluzione del quiz).

All’incertezza dei comandamenti viene in aiuto l’esemplarità etica del Maestro che pone il proprio corpo come modello di vita. La parola ed il gesto segnano e sottolineano il valore orale del sapere rispetto a quello della parola scritta.

Qualche cosa, dunque, sfugge alla regola, al comandamento, alla legge al manuale. (Se Antigone invoca inutilmente le Leggi non scritte dagli dei, anche Cristo “si dice”, come ogni buon insegnante è rimasto il Maestro, ma non Professore perché non ha mai pubblicato nulla).

Le avventure ed il prestigio dei Maestri si declinano in modo diverso a seconda delle aree geografiche. Noi siamo ormai degli ibridi. I nostri antenati Maitres à Penser sembrano quasi scomparsi o sono sospettati di essere i “cattivi Maestri”.

Il Meister tedesco ci fa un po’ paura. Goethe, Mann, Hesse, e Freud ci hanno messo in guardia. Nietzsche conclude nella disperazione il tempo dei Maestri. Senza più discepoli Zarathustra proclama la necessità e l’impossibilità di avere allievi: “ le cose migliori essenziali non devono essere rese pubbliche”. Il vero discepolo può essere soltanto colui che “imparerà a seguire se stesso”.Come per Wittgenstein “ la virtù superiore del Maestro consiste nel dare un dono che deve essere respinto“. Solo dopo il sacrificio del Maestro si avrà la “speranza del grande meriggio”.

I francesi che sono stati molto attenti a qualificare la “serietà” delle loro istituzioni culturali formate nell’Illuminismo e nelle Accademie, hanno contribuito a ridefinire l’intellettuale come “clerc” , chierico della laicità, con il significato che si è diffuso nella modernità (G.Steiner).

Oggi noi siamo un incrocio tra l’occidente ed una cultura di oltre Atlantico entro la quale la mitologia Europea sembra dissolversi; il senso della scoperta, l’avventura, l’impegno non dottrinario self – made, aprono alla creatività, ma anche all’improvvisazione.

Certo, alle volte, figure prestigiose, guru della cultura nelle università e nei centri di ricerca inducono forti migrazioni di discepoli. Il modo di lavoro è sempre quello del workshop, dei seminari e dei laboratori che danno spazio al gruppo. Conta più il metodo che la guida ed il metodo comporta richiamare e far scomparire figure significative da opporre all’entropia culturale. Anche la scienza si distacca dalle personalità che la praticano. Non “fine dei Maestri”,dunque, ma Maestro diffuso disincantato, rimitizzato e sovraesposto dai media?

La critica , le riviste, sono oggi attente a scrutare l’orizzonte dell’architettura per cogliere eventuali tendenze ed emergenze di nuovi e vecchi protagonisti. Io non sono, certo, in grado di dare un contributo: ammiro Franco Purini sempre più bravo a tracciare “geoarchitetture” che ci restituiscano il panorama delle scuole, dei nessi e delle radici che governano le nostre pratiche ed i nostri saperi.

Temo però che sia giunto il momento di domandare a me stesso e di dichiarare in che cosa è consistito il mio insegnamento. E questo mi pare è ciò che mi si chiede.

Vorrei rimandare a quanto hanno detto in queste pagine i miei “prediletti” allievi.

Più che volti e nomi ricordo bellissimi e laboriosissimi progetti, appassionanti discussioni. Oggi, a loro volta, sono Maestri e con molti di essi sono stato lieto di condividere, nel tempo ed in diversa misura, lavori e conoscenze. Certamente i loro interventi mi hanno emozionato ed anche in parte sorpreso. E’ a loro che devo molto. Se ho insegnato qualche cosa sono state le cose meno insegnabili. Può essere banale, ma progettare e costruire luoghi ed edifici è anche costruire sé stessi. Dopo ogni lavoro cancelliamo buona parte di ciò a cui credevamo. Dopo ogni lavoro siamo quindi diversi. Così con molti giovani e meno giovani abbiamo percorso insieme l’avventura del costruire indicando a vicenda pericoli e possibili strade da percorrere, portando sui tavoli un patrimonio comune, ciò che già siamo e ciò che già sappiamo.

Abbiamo affrontato, “in uno” problemi e temi reali, dichiarando i nostri limiti, quelli della disciplina, della cultura, ma anche le nostre responsabilità rispetto a ciò che c’è e a ciò che ci potrebbe essere, senza nascondere quei rischi che la volontà di potenza nasconde in ogni progetto. Troppe volte abbiamo parlato di “giochi” e di “narrazioni”; ciò che c’è e ciò che ci potrebbe essere non sono solo racconti: qui il libro non si può chiudere quando siamo stufi: i nostri interventi sempre lasciano cicatrici.

Ma occorre coraggio e ironia nel rimettere in gioco, ogni volta noi stessi ed i luoghi: anche la debolezza, e il non fare, sovente sono colpe.

Bisogna saper lavorare in gruppo (fin dai banchi di scuola) rispettando le nostre, ma anche le altrui specificità disciplinari. Soprattutto riconoscere che tutti, al di là dei vari ruoli (di tecnici, di imprenditori, di committenti), hanno oggi, per fortuna, una Kunstwollen, una volontà d’arte almeno pari alla nostra volontà, che và accolta e discussa. Non ci si può più nascondere dietro a fedi disciplinari, agli archetipi, a Regole immutabili. Occorre, cioè, come si diceva una volta, “mettersi nella pelle degli altri”, ma senza addormentarsi in essa.

Se ormai da tempo insisto (con un po’ di arroganza e molta incompetenza) sul tema del paesaggio, sul valore euristico, ma anche effettuale che l’ambiguità stessa del termine veicola, è perché mi sembra di leggere, attraverso di esso, la storia e la messa in gioco dell’avventura della modernità ed il suo compimento. E’ proprio dal vuoto che la violenza ha creato sui nostri paesaggi nel tempo e recentemente, (per me paesaggio è non solo alberi, pietre, fiumi, ma anche persone) che si può aprire lo spazio travagliatissimo di un riscatto che si fa strada nel tempo. “Là dove è più forte il pericolo, là è anche ciò che salva”.

Paesaggio comporta koinè non soltanto di linguaggi, ma di generazioni, di ruoli, di discepoli e Maestri. Paesaggio che si protende nel nostro corpo come i nostri corpi si distendano nel paesaggio.

Corpus, plurale, (J.L. Nancy) non soltanto organico, ma connessione di res extensa e res cogitans . Ecco l’oltre di una modernità sorta nel disincanto, da un sapere e da una curiosità laica: ricerca di continuità attraverso le contraddizioni - che solcano lo spazio ed il tempo - tra noi e la realtà, tra pensiero e mondo, tra parole e cose.

Continuità e responsabilità che si estende oltre le generazioni, passate ma anche oltre quelle future. Ecco che l’insegnamento diventa lavoro comune. Così la paideia raccoglie in sé il senso antico della philia , intesa non come generico altruismo, solidarietà, ma riconoscimento di un linguaggio e di un paesaggio comune, nello spazio, ma soprattutto nel tempo. Paesaggi che ci comprendono e che dobbiamo comprendere.

Il rapporto asimmetrico tra maestro e discepolo sembra rovesciarsi, così, in quello apparentemente simmetrico, intimo che si dà nell’amicizia: nella philia troviamo “l’altro come se stessi”, apertura dell’io al tu e dal tu all’io.

Derrida (Le politiche dell’amicizia, Cortina.) ci fa vedere come nell’apparente simmetria dell’amicizia si nasconda una dismisura, un disequilibrio una continua interrogazione che apre ad una misura nuova rivolta all’esterno, all’Altro. Tensione verso il fare, verso una felicità che una volta si chiamava eudaimonia, costruzione della polis.

Forse stiamo abbandonando la vecchia città per ricostruire, con le macerie dell’antica, nuovi e diversi spazi.

Così guardiamo il mondo con ironia e pietas - che è rispetto per gli avi e per i Maestri, ma che può anche essere stima e amicizia per i figli - allievi.

Vorrei infine disegnare, a piè di pagina, un Anchise tombé en enfance, a cavalluccio sulle spalle di un figlio avviato a fondare nuove città, a cercare nuove avventure. Il vecchio è girato all’indietro verso Troia che brucia. Non vedo lacrime sul suo volto, ma un ammiccamento, un sorriso ironico, liberatorio. (L’Angelo di Klee?).


Aimaro Isola. Già Ordinario in Composizione architettonica e Progettazione urbana, è professore Emerito al Politecnico di Torino e Accademico di San Luca.


Roberto Gabetti, Aimaro Isola poi Isolarchitetti.
Piano di recupero ex-area Fiat Novoli e interventi
all'interno del Piano. Firenze 1998-2006

Roberto Gabetti, Aimaro Isola poi Isolarchitetti. Piano di recupero ex-area Fiat Novoli e interventi all'interno del Piano. Firenze 1998-2006