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Guido Canella

La diffusione del centro*

Sul tessuto di Milano moderna è sovraimpressa la città romana e paleocristiana con le basiliche extramurane dislocate sulle strade per Como, Lodi, Piacenza, Novara (da Mario Mirabella Roberti, Forma Urbis Mediolani, 1963).  - ZOOM

Sul tessuto di Milano moderna è sovraimpressa la città romana e paleocristiana con le basiliche extramurane dislocate sulle strade per Como, Lodi, Piacenza, Novara (da Mario Mirabella Roberti, Forma Urbis Mediolani, 1963).

Che cosa significa applicarsi al problema della periferia?
Per noi significa intendere prioritariamente l'essenza singolare della città che l'ha prodotta. Essenza che non è riducibile alla generica categorizzazione di un paesaggio storico da salvaguardare e di un restante da modificare secondo una classificazione morfologica. Significa dunque considerare — secondo una tradizione di pensiero protrattasi con ostinazione per oltre un secolo — ogni città corpo vivente, nel connaturato respiro emanato per dotazione genetica, fisiologica sul territorio; e pertanto che essa, al di là di ogni apparenza, possiede una struttura nascosta — struttura e soprastruttura, come già usava dire —: una vera e propria ossatura resistente nel tempo a sostegno, fin quando vi riesca, di cartilagini e connettivi; e che soltanto a partire da questa ossatura essa può essere regolata per restare coerente al proprio ruolo nello sviluppo e nella contrazione, nella trasformazione e nella conservazione della sua compagine.
L'occasione di questa riflessione ci viene anche da una pubblicistica urbanistica di recente prodotta in Italia, dove si tratta dei differenziati approcci adottati da tre generazioni di piani regolatori destinati alle città dopo la Legge urbanistica del 1942. Eppure, al di là di intese e riscontri generazionali (dove la terza generazione, oltre a storicizzare le precedenti, ha in corso la propria autobiografia), a noi — forse perchè urbanisti togati non siamo — tutti quanti quei piani sembrano sostanzialmente accomunabili nell'essersi applicati alla città come fosse un insieme scomposto da riequilibrare per logica esterna; secondo modelli di analisi e terapia prescritti al raggiungimento di un assetto conforme: contenimento della sua espansione, centro storico da salvaguardare, equipaggiamento funzionale da riproporzionare per zoning e standard, pressione delle periferie e delle tracimazioni suburbane da temperare per aggiustamenti morfologici.
Ora è provato che il riequilibrio della città previsto in quei piani regolatori è stato in larghissima parte disatteso. E il cahier de doléances degli urbanisti italiani ne ha attribuito il sostanziale fallimento dei presupposti ad una fenomenica generale imprevedibile e incontrollabile (industrializzazione, immigrazione di massa, rendita fondiaria, motorizzazione indiscriminata, abusivismo, ricerca di consenso elettorale da parte di politici e amministratori, eccetera) e alla carenza o all'ambiguità degli strumenti legislativi approntati per contenerla. Mai — che almeno noi si sappia — il sospetto, da parte loro, che vi abbia agito, sia pure come concausa, l'aver trascurato di considerare e valorizzare i fenomeni insediativi proprio a partire dagli squilibri interni ed esterni, cioè da certe apparenti contraddizioni che sovente sono risultate effetto stesso della dislocazione, sopravvivenza e diramazione sul territorio.
Dunque le città hanno continuato a svilupparsi, troppo spesso caricate anche di falsi equilibri che hanno finito per incrinarne l'ossatura, nel frattempo sciaguratamente trascurata e lasciata indebolire. E gli urbanisti della terza generazione, pur dichiarandosi avversari del "modello quantitativo dominante" (ripreso dallo spagnolo desarrollismo), sembrano ormai ritenere le articolate incursioni del capitale finanziario, orientato a rigenerarsi soprattutto nelle aree periferiche dismesse dall'attività industriale, al di sopra di un controllo della ragione e dell'attuale operatività disciplinare. Confortata dalla convinzione che lo sviluppo abbia definitivamente alterato la natura della città, omologandone la tipicità strutturale e riducendo le differenze a pure questioni di dimensione e paesaggio, all'urbanistica non resterebbe così che cimentarsi sulla qualità della tessitura urbana rapportata a un modello di città ormai onnivalente. Infatti, proprio in coda alla terza generazione, tale qualità appare perseguita con nuovi slogan del tipo "architettura del piano'; "interventi di cauta modificazione", "progettazione dei vuoti urbani", quasi ad arrogarsi quell'approccio analitico-descrittivo da tempo coltivato in talune scuole di architettura italiane e a sottrarre definitivamente alla competenza degli architetti il terreno del disegno urbano. Comunque, nell'insieme, la cultura urbanistica di tutte e tre le generazioni sembra aver assunto volta a volta le contraddizioni attraversate dalle società più evolute per tappe di uno sviluppo inevitabile, adeguandosi a quella histoire événementielle (con recente neologismo "avvenimentale") confutata dalla tradizione "globalista" della storiografia, dove invece si estende a concomitanti permanenze e insorgenze strutturali il differenziato farsi di ogni contesto. Cosa avrebbero potuto insegnare, per esempio e magari per analogia, il dualismo poleogenetico e il lungo corso di Henri Pirenne e la lunga durata di Fernand Braudel, proposizioni di due tra gli antesignani di quella storia globale?
In primo luogo, che l'essenza della città non si arresta ai confini amministrativi né alla conurbazione, ma si prolunga sul territorio coinvolgendo quelle altre città e quei centri coi quali essa instaura un diretto e costante regime di scambio e di gravitazione polare. L'aver trascurato la priorità di un trasporto regionale di lungo corso, con frequenze, tempi, approdi effettivamente urbani, non ha forse contribuito a scatenare i fenomeni di accentramento, speculazione sui suoli, tracimazione incontrollata, obsolescenza dei servizi? Tanto che ancor oggi una manovra decisiva di contenimento, diradamento e riqualificazione della periferia dovrebbe stimolare un'inversione della tendenza insediativa con l'offerta di condizioni alternative di vita, occupazione, mobilità proprio là dove una corona storica di autentiche città avrebbe garantito ecologicamente e culturalmente. E il cosiddetto dualismo poleogenetico non incorpora forse, proprio nel regime urbano bipolare della discontinuità fisica e della portualità di terra, quel nuovo assetto insediativo necessario a rendere fisiologica la transizione della città in ogni congiuntura strutturale: oggi verso il terziario e il quaternario, come in passato tra società feudale e società mercantile, tra società agraria e società industriale?
Del resto, senza ricorrere alla storiografia di scuola franco-belga, si sarebbe potuto trarre esperienza direttamente da una certa cultura urbanistica "politecnica"; così come s'è coltivata nel tempo proprio a Milano (dove, per altro, s'è coniata la formula delle tre generazioni), dacché nei tratti di tale cultura è pur rinvenibile una tradizione di ricerca che, nell'approccio alla città, ha ritenuto prioritario estrarvi retrospettivamente, nella lunga durata appunto, la genealogia di costituzione, crescita strutturale e diramazione sul territorio; genealogia rispetto alla quale valutare, proprio nella discontinuità, la congruità propulsiva di ogni nuovo progetto.
Dalla metà del secolo scorso con Carlo Cattaneo, agli anni Quaranta e Cinquanta con Giuseppe De Finetti, dall'ultimo dopoguerra a tutt'oggi con Lucio D'Angiolini, in tale direzione ritornano puntuali a certe scadenze preventive, e in forma di contraddittorio alle decisioni in corso: la necessità di avvalorare l'identità e il ruolo della città nel rispettivo contesto di appartenenza, la facilitazione delle attività produttive motrici di benessere per l'intera collettività, l'interdipendenza tra capoluogo, corona e concentrico, lo scambio a distanza attraverso un efficiente regime di mobilità.
Concezione che fa anche giustizia di una angusta contesa tra norma urbanistica ed eccezione architettonica, spostando la misura delle contraddizioni reali alla dinamica della scala macroeconomica e macrourbanistica, e incorporando così certi apparenti squilibri, pur verificabili nel necessario trasformarsi e dotarsi della periferia, a quel ruolo di risalto funzionale e figurativo che la rendano riconoscibile come autentica città.

Guido Canella, architetto è stato professore emerito alla Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano che ha contribuito a fondare. A varie riprese ha insegnato all'IUAV di Venezia. E' stato direttore delle riviste di architettura "Hinterland" (1978-85) e della nuova serie di "Zodiac" (1989-2001). E' stato membro nazionale dell'Accademia di San Luca (dal 1989) che ha presieduto nel triennio 2007/2008


*Editoriale del numero 13 della rivista Zodiac, Marzo / Agosto 1995. Ripubblicato per gentile concessione degli Eredi Guido Canella
Zodiac n. 13, 1995 - ZOOM

Zodiac n. 13, 1995