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Carlo Quintelli

Oltre la città

Smeraldo Smeraldi, Parma e il torrente omonimo, inizio XVII secolo - ZOOM

Smeraldo Smeraldi, Parma e il torrente omonimo, inizio XVII secolo

Abstract

In questi ultimi vent’anni siamo andati oltre le condizioni attraverso le quali architettura e città avrebbero potuto continuare a stabilire una significativa reciprocità. La città si è dispersa nello spazio territoriale così perdendo molti dei suoi denotati di forma, struttura, ruolo funzionale ed identitario. Viene così a mancare il soggetto, l’essere città. In questo contesto, oltre i tentativi tecno-politici della smart city, la riaffermazione della città dovrebbe avvalersi di una progettualità che lavori sul corpo della città costruita, su forma e struttura di una densità urbana chiamata a ridefinire il significato comunitario della città.


In questi ultimi vent’anni, in particolare nel contesto italiano ma non solo, siamo andati oltre le condizioni attraverso le quali architettura e città avrebbero potuto continuare a stabilire una significativa reciprocità. Un oltre che investe la natura spaziale, lo stato relazionale ma anche quell’immagine che semanticamente non riesce più a rappresentare il presupposto collettivo di un essere città. Il superamento di questo limite e degli statuti che hanno animato la continua rielaborazione del tema urbano, certo a volte conflittuale ed ideologica, dalla sperimentazione del Moderno sino alle sue inerzie simulacrali o alle reazioni dello storicismo post-modernista, ha decretato l’ormai generalizzata mancanza di modelli di riferimento delle espressioni insediative. Ci si trova in una sorta di spazio relativistico di addizione degli oggetti costruiti in assenza di logiche di relazione che non siano esclusivamente opportunistiche ed autoreferenziali.

Prendendo spunto dalla recente fenomenologia storica, a partire dagli anni Novanta, attraverso l’apporto subordinato e a volte solo tecnicistico dell’urbanistica, condizionata ad esempio dall’ingegneria delle infrastrutture quale prerogativa primaria di un non sempre ben definito sviluppo economico, si assiste all’indebolimento della progettualità e dei conseguenti indirizzi programmatori in termini inversamente proporzionali ad un’industria edilizia alimentata dalle rendite fondiarie e dal fattore immobiliare — a cui partecipa la stessa pubblica amministrazione attraverso il meccanismo di riscossione degli oneri — così determinandosi uno scenario che potremmo definire di speculazione di ritorno, per analogia a quanto avvenuto nella contingenza storica del boom edilizio tra gli anni ’50 e ’60 del Dopoguerra. Il caso della Roma di ieri e di oggi risulta paradigmatico in tal senso. Con la differenza aggravante che tali fenomeni erano stati oggetto, già a partire dalla metà degli anni Sessanta e assai di più negli anni a seguire, di valutazione critica, di ripensamento dei modelli di sviluppo, di elaborazione di strategie alternative in grado di interpretare la tradizione qualitativa dei contesti insediativi italiani e del paesaggio che li caratterizza in una prospettiva di trasformazione capace di implementarne ulteriormente peculiarità e valori. Straordinaria e forse unica a livello europeo, in questo senso, la produzione teorica e scientifica incentrata sul rapporto tra architettura e città messa a disposizione dalla cultura architettonica italiana, da università, centri di ricerca, singoli contributi, anche se tutti sostanzialmente inascoltati. Una dispersione di energie intellettuali e di progettualità inattuata nonostante gli attori coinvolti nella trasformazione urbana, pubblici e privati, abbiano investito in questi anni ingenti quantità di risorse economiche, spaziali, ambientali.

Tuttavia, di fronte a questo essere andati oltre, l’azione successiva di riflessione e ripiegamento critico propositivo all’interno del corpo fisico e identitario della città dovrebbe riguardare un rinnovato impegno delle discipline dell’architettura della città non meno che un cambio di indirizzo politico e produttivo in grado di recepirne la visione razionale tesa a modelli innovativi di interesse collettivo.

Quindi, prioritariamente, si ha di fronte il problema di una dimensione culturale da ridefinire, a partire dal rapporto fondamentale tra teoria e prassi, tra scienza (architettonica e urbana nella fattispecie) e poteri (politico amministrativi ed economici, quelli del “fare” per intenderci), tornando ad interrogarci su cosa dovrebbe essere la città e quali comportamenti collettivi oggi pretende anche a salvaguardia di quelli individuali.

In questa auspicata direzione di indirizzo, entrando nel merito di alcuni criteri generali, risulta fondamentale la distinzione tra polis e civitas sottolineata da Massimo Cacciari (La Città, 2004) a cui corrisponde, per la prima, una condizione unitaria fondamentalmente tribale anche se ricca di dialettica del pensiero politico e per la seconda la formalizzazione su base giuridica del patto di cittadinanza tra individui socialmente eterogenei quale presupposto alla partecipazione politica degli stessi. In altre parole il valore evolutivo aggiunto della civitas rispetto alla polis sembra essere dato dal fattore struttura, sotto il profilo della forma istituzionale e della socialità ovviamente che ne consegue, ma anche, e la testimonianza storica lo dimostra, della forma urbana e delle componenti insediative che la strutturano. Certamente la relazione necessaria tra struttura e fenomenologia urbana appare ancora non descritta in questi termini generali ma è importante ribadirne la funzione concettuale nel momento in cui il progetto affronta l’anti-città o peggio la sua contraddizione per evanescenza, cioè la non-città. Cercando così di superare l’ideologia del relativismo fatalistico dell’essere diventati tutti, nostro malgrado, territorialisti privi di città (che è oltretutto cosa assai diversa dall’essere disurbanisti), magari al traino di infrastrutture presuntivamente poleogenetiche — laddove si scambia sprawl e conurbazione per città — secondo una dinamica dispersiva e di gusto metropolitano di stampo globale, sradicata da luoghi e memorie, da cui scaturisce un’espressione architettonica mondana faticosamente in gara con la seduttività dell’immaginario mediatico.

Si tratta allora di incentivare una progettualità urbana autentica, scaturibile attraverso un soggetto città che progetta il proprio corpo (forma) e il proprio ruolo (funzione) nella consapevolezza della propria fisiologia (rapporti), dove le individualità si integrano in una processualità evolutiva unitaria e strutturata, solo in quanto urbana. E questo senso di urbanità del progetto non deve cadere nell’equivoco dell’identificare la progettazione nella sola partecipazione, che rimane una fase conoscitiva ed empatica importante di processo della progettazione stessa, ma che non può sostituire la responsabilità dell’interpretazione operativa, quella di una vera techne, nella fattispecie dell’architettura della città.

La stessa nozione recuperata di città che viene promossa attraverso la cosiddetta smart city non può essere adottata in chiave risolutiva poiché tutta interna ad una versione tecno-politica dell’intendere la qualità insediativa quale mero ambito performativo ad esempio in chiave energetica, dei trasporti e delle comunicazioni, dell’ambiente. Un insieme di fattori, pur della massima importanza, che però evidentemente non bastano per fare la città, quella delle figure architettoniche, delle scene urbane, dell’apporto simbolico e rappresentativo, del relazionarsi in uno spazio dal valore riconosciuto solo in quanto conformato.

In questo non facile tornare alla città dall’oltre la città, consapevoli di essere in una nuova fase storica, il percorso dovrebbe toccare alcuni punti quali presupposti all’azione progettuale tra cui:

1) La città della progettualità futura non può continuare ad inseguire il territorio o pseudo-città della dispersione insediativa, poiché spesso non vi sono più le condizioni per rimarginare, ricucire, riconnettere come forse ancora la città degli anni Ottanta avrebbe consentito di fare. Il territorio dello sprawl sub-urbano si deve auto-medicare, auto-ricostruire, deve trovare una propria economia di ruolo e senso identitario. Semmai ci si deve interrogare sul rapporto sempre determinante tra città e territorio, quali soggetti distinti e solo per questo in grado di stabilire rapporti significativi di scambio, tenendo conto delle vocazioni dello spazio regionale come di quello che attraverso il sistema dei trasporti e delle comunicazioni avvicina le città così determinando reti policentriche inedite che prescindono dalla vicinanza geografica.

2) La città dovrà guardare progettualmente a se stessa e nulla del proprio corpo è fuori dall’interpretazione critica: il centro storico, le periferie storiche del Novecento, quelle di fine secolo e soprattutto quelle di recente realizzazione oltre a tutto quell’insediamento potenziale che sta sulla carta di tanti piani ancora vigenti ma caratterizzati da una visione anacronistica poiché redatti in tutt’altra contingenza storica.

3) La diseconomia di utilizzo dello spazio urbano pretende che eventuali sviluppi della città siano compresi all’interno del proprio corpo. La pratica di una densificazione che nel caso risponda ai bisogni quantitativi e per molti aspetti anche morfologici della città non può però essere immaginata al di fuori di una logica di strutturazione del corpo urbano. A cui concorre una dialettica consapevole tra pieni e vuoti, tra funzioni, in particolare quelle pubbliche, ed esigenze fruitive, tra elementi figurativamente significativi all’interno di un disegno gerarchizzato dove predisporre centralità, spazi di aggregazione, figure simboliche.

Mai come oggi, dopo essere andati oltre lo spazio e il senso della città, nel relativismo dell’arbitrarietà insediativa, della dispersione delle singole entità, della perdita di immagine identificativa, le città possono riaprirsi al progetto, nuovamente disponibili ad ulteriori stadi di un’evoluzione storica che le riaffermi. Una storia che spetta a noi scrivere e ancor più disegnare.


Riferimenti bibliografici

AA.VV., Per un’idea di città, Venezia 1984.

Canella, G., La diffusione del centro, in Zodiac 13, 1995.

Cacciari, M., La città, Rimini, 2004

Aymonino, C., Il significato delle città, Venezia 2000.

Quintelli, C., Comunità/architettura, in AA.VV., Comunità/architettura (a cura di E. Prandi), Parma 2010.

Quintelli, C., Progettare il costruito - Per un’architettura di interni (urbani) in AA.VV., European City Architecture a cura di L. Amistadi, E. Prandi, Parma 2011


Carlo Quintelli, Professore Ordinario di Composizione Architettonica e Urbana, nella Facoltà di Architettura di Parma. Dal 2012 è vice direttore del DICATeA, Dipartimento di Ingegneria Civile, dell'Ambiente, del Territorio e Architettura dell'Università di Parma.


Carlo Aymonino, Progetto per la ricostruzione del Teatro Paganini a Parma, 1964 - ZOOM

Carlo Aymonino, Progetto per la ricostruzione del Teatro Paganini a Parma, 1964