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EDITORIALE nr. 2 del 28-09-2009

Uscire dall'autoreferenza e dallo sprawl

GP
Il mondo dell’architettura tenta di rispondere a bisogni specifici sulla scorta di sollecitazioni specifiche. Come si dice nei verbali dei carabinieri: a domanda risponde. Ciò che viene ad esso richiesto viene, non importa se bene o male e neppure se benissimo, progettato. Il committente ha sempre ragione, a prescindere. Non importa se il committente non vede al di là del proprio (non importa se interessato o meno) naso, cioè se pone domande irricevibili, obsolete, perverse o addirittura patogene. L’importante è costruire e quindi tenere in piedi la macchina che ha cementificato il Paese intero. In alcuni casi sembra perfino esserci il cosiddetto risvolto sociale (costruire per gli anziani, o per qualsiasi gruppo sociale debole) e quindi una sorta di alibi per compiere il delitto perfetto: costruire, e spesso costruire nello sprawl. La forma urbana va sempre più verso lo sprawl, questo costituisce non solo una prossima futura catastrofe, e forse una catastrofe molto vicina dal punto di vista economico, ecologico e soprattutto sociologico: quindi si deve porre attenzione a contenere lo sprawl. La scelta deve essere assolutamente a favore della città compatta. Non ho bisogno di insistere in modo particolare, ma soltanto il delirio che caratterizza i nostri tempi può immaginare la vita di una persona anziana, anche autosufficiente, nello sprawl. Sprawl significa, come ci spiega perfettamente Richard Ingersoll, dominio incontrastato dell’automobile. E’ chiaro che non potrà mai esistere trasporto pubblico che possa rispondere alle necessità di persone che vivono in spazi così sdraiati, così sparsi. Accettare di progettare, ad esempio nello sprawl, significa che manca qualsiasi respiro sociale e attenzione per il bene pubblico, in prassi di questo tipo. Non si chiede, mi pare, il mondo dell’architettura, perché e per chi costruire e nemmeno perché il committente ha posto una domanda irricevibile. Non si adopera, voglio dire, per trasformare una domanda impropria in una domanda legittima, per riformularla in termini socialmente corretti. Già, ma così facendo si dovrebbe abbandonare, in qualche modo, l’idea che governa parte del mondo dell’architettura e dell’urbanistica, ovvero l’idea di piano. Niente da dire sul piano, purché non si tratti di un modello valido in ogni territorio e per tutte le stagioni, una sorta di replicante generico a cui poi vengono apportate alcune variazioni per fingere di renderlo specifico e peculiare a quell’ambiente specifico. Questo laddove specificità territoriali, anime di luoghi da ascoltare, richiederebbero analisi attente e strumenti ad hoc. La razionalità che sottende l’applicazione tecnica di urbanisti e progettisti presuppone infatti una omologabilità di uomini e cose, secondo immagini unidirezionali dei comportamenti umani. Purtroppo spesso il piano è davvero pensato sul modello Carta d’Atene, ovvero sulla scorta di un’idea obsoleta che pensa di trovare un ciò che è comune tra territori, tradizioni e popolazioni diversissime e di paracadutare il piano su un certo territorio. Uscire dall’autoreferenza del mondo dell’architettura consiste nell’avere il coraggio di comprendere, una volta per tutte, che prima bisognerà pensare al territorio specifico, alle tradizioni specifiche, alla popolazione specifica (senza per questo “giocare troppo col punto”, ma avendo anche il coraggio di rilanciare) e solo in un secondo tempo ipotizzare il piano e progettare. Infatti, studiando il territorio, ci si potrebbe accorgere che non c’è bisogno di niente di nuovo e che vi è viceversa l’esigenza di valorizzare ciò che esiste e che potrebbe essere auspicabile avere il coraggio di respingere una domanda mal posta. Ci fosse un architetto che risponde: non c’è nulla di nuovo da costruire, possiamo adeguare ciò che c’è già e che socialmente funziona. E se fosse arrivato il momento di non costruire più (o quasi più) da nuovo? So bene che circa un terzo del PIL italiano ha a che fare con il cemento e derivati, cioè prevalentemente con le nuove costruzioni. Eppure è più oneroso demolire e ricostruire piuttosto che non tenere e rigenerare, ristrutturare. E’ questa la sfida che abbiamo davanti.


Giovanni Pieretti è Professore Ordinario (settore scientifico-disciplinare SPS/10, Sociologia dell’ambiente e del territorio) presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, dove insegna “Sociologia dell'ambiente” e “Sociologia urbana e rurale”. È Direttore del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Bologna e, per il triennio 2007-2010, coordinatore nazionale della Sezione Territorio dell'Associazione Italiana di Sociologia. Dirige, con Paolo Guidicini, la rivista Sociologia Urbana e Rurale e la collana, per l’editore Franco Angeli di Milano, Sociologia Urbana e Rurale.

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